Figlia del colonnello Marcello Casula, Nuccia (1921-1945) operò con la famiglia, dapprima in territorio varesino, per la causa della Resistenza. Morì sull’Appennino tosco-emiliano colpita dal fuoco nemico, durante un’incursione nella quale fu catturato il padre. Di lui si persero definitivamente le tracce. Il corpo di Nuccia fu nascosto dalla madre nella neve, poi dal sacerdote don Giuseppe Borea nel cimitero di Obolo con altri cadaveri. Lo stesso sacerdote venne fucilato per il pietoso sostegno offerto alle vittime. Nuccia ottenne definitiva sepoltura nel 1946, quando la salma rientrò finalmente a Varese per essere tumulata nel cimitero di Giubiano. La nobile e dolorosa vicenda di Nuccia è raccontata in chiave autobiografica e in una temporalità retrospettiva sospesa, quasi fosse l’ultimo bagliore della sua vita terrena proiettata verso la Luce,
Non ho mani né bocca, non materia né pensieri. E non sento più il cerchio che stringe l’anima nel perimetro dei corpi. Qualcosa, come un’acqua di ruscello dolce, mi scorre dalla fronte, scivola nell’immensità candida che mi avvolge e sovrasta. Non importa dove sono. Non importa più voler sapere e pensare. Un calore bianco mi riscalda, mi confonde e mi assonna, come in un tepore di coltri domestiche.
Forse Diego è vicino a me. Ai bordi della collina, nella neve alta di gennaio, mio fratello guarda dal suo cavallo verso valle e aspetta. O forse sono nuvole di cielo che salgono su per l’Appennino, non è la sagoma dei nostri cavalli. Qualcosa, quasi una costellazione di fuoco e di ghiaccio, mi è esplosa nel cuore, non so quando, perché mi pare di vagare nel nulla del tempo. Ma certo è scoppiata prima, prima che la terra mi attraesse verso di sé, in questo abbraccio tiepido e rassicurante che non ammette più ansie e paure.
Non ho mani, le mie mani sono intrecciate alla terra.
Non ho bocca: le mie labbra sono congiunte alle sue.
Non ho pensieri. Il reale e l’irreale fluttuano annullandosi nell’unica residua consistenza dei ricordi, scivolano nel tunnel dell’infinito fascio di luce in cui mi pare di ripercorrere all’indietro la mia vita.
Io e Diego corriamo in sella ai nostri cavalli. Battiamo la collina, giorno e notte, più la notte che il giorno, da clandestini. Andiamo a informare e portare aiuto ai compagni. Corriamo nel fango, nella neve della montagna, nel freddo dell’inverno. Corriamo di casolare in casolare. Di tenda in tenda. Da una macchia di bosco all’altra. Ci sono le ferite dei compagni da medicare, le scorte da provvedere, i messaggi da trasmettere. La nostra è una famiglia cha ha scelto di amarsi anche nell’impegno per la libertà. Se papà è il colonnello Casula, mamma è più forte di lui, sembra una roccia. E io e Diego siamo solidali con loro. Ci siamo stretti attorno a papà e all’esempio della sua vita di ufficiale, non possiamo accettare la sopraffazione nemica e quella, ancora più amara, dei fratelli. Operiamo insieme, per sostenere i nostri ideali di vita. Insieme fingiamo di non dare ascolto alle paure, ai dubbi, alle angosciose domande.
È stato un Natale tristissimo, il nostro ultimo Natale. Mamma era malata e papà ferito. Ho chiesto a Dio di prendere me al loro posto. Voglio che si salvino tutti, l’avevo detto anche a Diego in un momento di sconforto. Gliel’ho detto mentre cavalcavamo affiancati e il rumore degli zoccoli dei cavalli scandiva le nostre confidenze fraterne: il suo profilo s’è contratto, quasi avessi pronunciato una sentenza definitiva. Non abbiamo saputo trattenere le lacrime. Ma non ho cambiato le mie preghiere a Dio, anzi le ho rinnovate. Li amo tanto.
Di me non m’importa. Ho visto uscire dalla mia vita amici giovani e a me carissimi. E qualcuno mi era anche più caro degli altri. Cerco di dare un senso e una risposta di fede a quelle morti, ma mi è difficile accettare la scomparsa di coetanei che hanno poco più di vent’anni. Abbiamo abitato insieme gli stessi lembi di paesaggio e di cielo, gli stessi giochi e amori, la stessa musica. Mi ritrovo sola e sguarnita del loro amore, mi manca la difesa del loro affetto. È stato proprio davanti a quegli occhi amati, e chiusi per sempre, che ho giurato di agire anch’io. Con i miei cari ho rinunciato ai piaceri della quotidianità, a una vita normale. Ci siamo trasformati da cittadini in maldestri abitanti della montagna, da persone libere in clandestini.
Ma anche se non ne parliamo quasi mai, abbiamo nostalgia della nostra vita. Un giorno ho fatto un elenco a Diego. Gli ho detto: mi mancano i libri e i dischi, la buona cucina di mamma, le feste di famiglia, il profumo dei vestiti appena stirati, le lenzuola fresche nel letto, le escursioni in montagna e le corse in bicicletta. Mi mancano certe lettere, e un paio di occhi verdi che non rivedrò più.
“E a te cosa manca?” ho chiesto.
Ha abbassato gli occhi. “Mi manca tutto”.
Per il lavoro di papà abbiamo cambiato spesso residenza. Ma, ovunque fossimo, a Milano, a Como o a Varese, era bello stare insieme, perché la nostra casa era una casa vera, e dentro c’era il cuore di tutti noi.
I patimenti degli ultimi due anni, che si sono aggiunti a quelli della guerra, non hanno cambiato solo il nostro modo apparente di vivere. Hanno rotto anche quella condizione interiore di amore e sicurezza che ci aveva sempre accompagnati.
Dicono di me che sono molto seria, che faccio soggezione, che sono gentile ma non concedo confidenza. Ma c’è anche paura nel confidarsi, non sempre sei sicuro di chi ti sta davanti. È soprattutto questo clima di diffidenza che ti intristisce dentro e ti fa sentire già vecchio.
Qualche volta mi guardo indietro, cerco la Nuccia sorridente dei tempi del liceo. Rivedrò mai la mia scuola, il mio campo da tennis, le mie amiche di qualche anno fa? Quanti saremo quando questa guerra e questa lotta fratricida finirà? E non posso respingere certe domande : mi chiedo se è giusto quello che stiamo facendo, se mentre noi stiamo qui a lottare e soffrire gli altri si accorgono che qualcuno combatte anche per chi non ha scelto e sta alla finestra a guardare e non rinuncia al caldo della sua casa, alle amicizie, ai divertimenti.
Mi parevano ricordi e invece di nuovo s’affollano i pensieri. Ma cosa succede a mamma? L’ho lasciata con quelli là, che hanno mani rapaci e dure, modi tristi e arroganti. Eppure è la sua voce ora che li sovrasta, dignitosa e ferma. È rimasta sola nella piccola casa sotto la neve. Papà l’hanno portato via, erano in due a scortarlo. E un terzo uomo lo teneva sotto il tiro delle armi. Quella sua ultima immagine, come di Cristo tra gli sgherri, mi ritorna in un lampo di memoria. Lo vedrò più? Temo di no. Non è stato possibile contrastarli in nessun modo. L’hanno preso: cercheranno in tutti i modi di fargli dire quello che sa. Ma non parlerà. E loro non lo risparmieranno.
Diego, ringrazio Dio almeno per lui, è fuggito per tempo dalla finestra.
Ma perché io non sono con mamma, non provvedo a difenderla da quei prepotenti? Perché resto qui, in questo calore che mi avvolge tutta e mi invade il corpo e mi chiede di chiudere gli occhi e di non pensare a niente? Devo guardare mamma, devo salvarla ora che è sola e papà e Diego non ci sono più. Voglio riportarla a casa, via da qui, dalle montagne, dal freddo.
Ora la sua voce tace. Forse se ne sono andati.
E infatti la vedo, vedo la sua ombra nel chiarore della luce, sull’uscio. Si assicura che siano lontani, poi guarda verso di me. E inizia a correre.
Corre nella neve alta. Inciampa e si rialza.
- Non ti sarai fatta male?…se aspetti, mamma…se mi dai tempo…
Corre e inciampa un’ altra volta.
Poi un’altra.
- Non abbiamo mai visto tanta neve, neppure quando si sciava…te ne ricordi, mamma?
Si rialza, corre e vacilla ancora. Ma mi è vicina, sempre di più.
Cade in ginocchio, davanti a me, immobile e pallida più della luce che fascia la valle innevata.
Un urlo scuro le corre per gli occhi
- Non mi sono fatta niente mamma. Sono solo caduta nella neve. Ora mi rialzo, guardami.
Vedo la mia sofferenza dentro di te, come una ferita di spada nel cuore.
Non mostrarmi i tuoi occhi, mamma. Lasciami solo inseguire quell’accenno di preghiera sulle tue labbra che recitano amore. E fammi sentire, ti prego, il tuo abbraccio.
Non ho mani, né bocca, né pensieri. E non sento più il cerchio che stringe l’anima dentro il perimetro dei corpi. Qualcosa, come un’acqua di ruscello dolce, mi scorre dalla fronte, scivola nell’immensità candida che mi avvolge e sovrasta. Non importa dove sono. Non importa più voler sapere e pensare. Il reale e l’irreale fluttuano annullandosi l’uno nell’ altro, s’insinuano nel tunnel di un infinito fascio di luce. Un calore bianco mi riscalda, mi confonde e mi assonna, come in un tepore di coltri domestiche.
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