Cosa vuol dire cambiamento? Qualche ipotesi.
Cambiamento vuol dire (1) che non bisogna associare il verdetto delle elezioni amministrative alla sorte del governo. E’ un’esercitazione d’idee e pratiche tutta/solo italiana. Quando nel 2001 il socialista Delanoe fu scelto come sindaco di Parigi, nessuno si sognò di chiedere al presidente gollista Chirac di far fagotto. Idem il mese scorso a Londra, dove primo cittadino diventò il laburista d’origini pakistane Kahn senza che del premier conservatore Cameron si reclamassero le dimissioni. C’è voluta la sciagurata idea del referendum su Brexit perché si accingesse al ritiro con ignominia.
Cambiamento vuol dire (2) che, dopo una sconfitta, un partito esercita autocritica, cerca di capire in che cosa ha sbagliato e come rimediare, alza lo scudo per proteggere il segretario. Nel Pd succede il contrario: la minoranza interna vuol usare il default per silurarlo, felice d’essere benissimo riuscita a ostacolarne la campagna elettorale. Consigliabile ai professional/guastatori la lettura del libro “La difficile stagione della sinistra” curato da Carmine Fotia, in cui Goffredo Bettini -che fu la rassicurante ombra di Rutelli e Veltroni, sindaci d’una Roma ben diversa dall’attuale- analizza l’indomabile/suicida tendenza di questa parte politica a infliggersi danni esiziali. Una madornale iattura: Renzi che prova a innovare andrebbe praticamente aiutato, anziché ideologicamente avversato.
Cambiamento vuol dire (3) che i risultati del 19 giugno non hanno nulla a che vedere col referendum costituzionale di ottobre. Lì si deciderà se un primo colpo di piccone va dato a un sistema pletorico, costoso, difensore di poltrone/privilegi parlamentari e di enti/baracconi inutili. E se va finalmente modificata una legge elettorale che spesso a urne chiuse favorisce l’apertura del dibattito su chi ha prevalso e chi no. Viceversa, l’Italicum, pur frutto di caprioleschi compromessi, garantisce verdetto chiaro: chi vince prende tutto, chi perde ci riproverà la volta dopo. Avremo un Paese più stabile, una rafforzata credibilità europea, meno incomprensione sui mercati internazionali.
Cambiamento -e qui dalla sinistra passiamo alla destra- vuol dire (4) che il perpetuarsi del moderatismo/conservatorismo, nella settentrionalità prealpina in cui viviamo e che ci è cara, non deve passare anche (soprattutto) per gl’insistenti richiami alla Le Pen e a Trump. Né solo (specialmente) per lo stucchevole mantra avverso all’immigrazione. Né infine (topica grossolana) per un profilo troppo distante dalle questioni territoriali che toccano da vicino i residenti. Per esempio: chi ha sentito parlare la Lega dei problemi del tessuto imprenditoriale, ancora in evidente sofferenza? A Varese la voce interessata alle emergenze locali è così poco/zero risuonata che il regno padano è caduto dopo ventitré anni di dominio. “Abbiamo perso il contatto con la gente” ha dichiarato Bossi, cui ha fatto eco Leoni, i due padri fondatori del nordismo che allora aspirava a essere indipendente perché negletto dallo Stato centrale. Hanno inteso comunicarlo pubblicamente a Salvini, caso mai faticasse a capire l’aria che tira. Una brutta aria. Peggiore perfino di quella che tira per Renzi.
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