Per molti Alfredo Binda è stato il mito del pedale, il campionissimo che ha fatto urlare dalla gioia, che ha regalato un brivido di italianità un po’ ovunque nel mondo. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo e di stimarlo attraverso i racconti di mio padre, nato anche lui nel 1902 come il Binda. Me ne parlava come di un eroe capace di uscire da inferni di fango e di fatica, lasciando gli altri nel turbinio della polvere, del caldo torrido, del freddo e della neve. Si trattava di un giudizio da tifoso, basato sull’amore per la bici, su personaggi che si facevano stimare e apprezzare per come sapevano affrontare le difficoltà di una corsa, per i loro muscoli, il coraggio, l’abnegazione che mettevano nel loro impegno sportivo, la capacità di lottare come leoni nell’arena, affrontando le incertezze di un mondo ancora tutto da costruire. Il destino ha poi voluto che lo conoscessi di persona, a casa sua, grazie a mio suocero, di cui era stato testimone di nozze.
Ho incontrato un uomo compassato, elegante, ilare, capace di sorridere delle sue difficoltà e di metterti a tuo agio con battute cariche di arguto sarcasmo. Di lui mi hanno colpito la semplicità, il suo sguardo attento e indagatore, la sua capacità di ragionare soppesando fatti e parole, le pause di riflessione. Dell’inferno delle strade sterrate, della maschera di polvere e fango sul viso non aveva nulla, l’impressione era quella di un elegante padre di famiglia pienamente soddisfatto della sua missione. Quando ho incontrato la figlia Lauretta per un’intervista, ho potuto rafforzare e consolidare il giudizio che mi ero fatto e cioè che il più grande campione di tutti i tempi fosse un confortante esempio di civile umanità, proprio quello che immaginavo leggendone le storie, un italiano capace di incarnare e di esprimere i valori più puri e più belli dello sport e del nostro paese.
Ricordo un passaggio di Lauretta: “Criticava le esagerazioni e certi eccessi. Il Binda è stato emigrante, ha dovuto abbandonare la sua casa, i suoi genitori, i suoi fratelli, i suoi amici, quindi noi abbiamo sempre nel cuore il fenomeno dell’emigrazione, lo status dell’emigrante, perché siamo figli di emigranti e lui questa cosa ce l’ha trasmessa proprio sulla pelle. Il Binda e i suoi fratelli sono andati via giovanissimi, a fare gli stuccatori a Nizza, dove “les Italiens” erano visti malissimo. Faceva un lavoro decoroso, tra l’altro aveva frequentato una scuola di disegno, realizzava delle cose molto belle, ma l’inserimento non è stato facile. Immaginiamo cosa potesse provare un ragazzino che a sedici/diciassette si vede costretto a lasciare tutto, deve essere stata un’esperienza durissima. Ha iniziato a praticare il ciclismo per divertimento, andava a correre la domenica. In Francia, i dirigenti della società per la quale correva gli dicevano: “O la smetti di lavorare e fai il corridore a tempo pieno…”. Aveva solo vent’anni. Non è facile per un giovane di quell’età prendere decisioni che possono avere un peso determinante per il futuro, in una condizione dove tutto è legato a un filo. A vent’anni è stato costretto a fare scelte di vita molto impegnative, che avrebbero avuto una ricaduta determinante sulla sua vita futura. Ce lo raccontava spesso, per farci capire come lui aveva affrontato la vita, sperando che potessimo imparare qualcosa dalla sua esperienza. Spesso diceva: “Io ho avuto un momento bruttissimo, perché di là mi dicevano di smettere di lavorare e di fare il corridore, ma che garanzie avevo per fare quel mestiere lì? A volte, però, bisogna buttarsi, bisogna rischiare”. Quando è venuto la prima volta in Italia per farsi notare è partito con un’idea: “Vado a fare il Giro di Lombardia, così mi vedono, però, siccome non ho i soldi per andarci, devo vincere il premio che c’è sul Ghisallo, così mi pago il viaggio in treno”. Il Binda era un calcolatore, anzi, più che un calcolatore, era un gran ragionatore”.
Per Lauretta papà Alfredo era ed è rimasto il Binda, un modo per avvalorare l’italianità di un padre diventato storia di un paese, cresciuto in un periodo difficile, dove per conquistarsi un posto a tavola bisognava scavalcare le Alpi e andare in Francia, in Inghilterra, in Belgio, in Argentina e dove la vita dell’emigrante era difficile, irta di asperità, incomprensioni, solitudini e offese. Alfredo Binda ha dimostrato che era possibile costruire un futuro senza piangersi addosso, con la determinazione e la forza che contraddistingueva il suo carattere italiano. Emigrante, decoratore, corridore, sempre con tanta grinta in corpo, pieno di speranza, fiducioso, prima di scoprire che forse sarebbe stato possibile intraprendere l’unica strada sicura per il suo futuro, quella delle corse. Binda non è stato solo il campione che batteva tutti, ma il personaggio che sapeva vivere e interpretare il cuore di un’Italia che guardava al presente per costruire il futuro. In questo futuro vedeva l’importanza dell’istruzione per i giovani, l’importanza dello studio delle lingue, il ruolo europeo di una nazione giovane, uno sport più organizzato e difeso, la funzione civile e sociale dello sport, l’importanza della preparazione e dell’alimentazione, il ruolo fondamentale della famiglia. Era un personaggio abituato ad ascoltare e a osservare, pronto d’intuito, capace di stemperare gli eccessi, di mettere d’accordo, di conciliare, di capire le precedenze. Ha sempre amato moltissimo il suo paese, che considerava il luogo più bello del mondo. A Cittiglio ritrovava sempre il fratello Albino, sostegno della sua vita sportiva e poi gli amici, il profumo e i sapori della casa natia, i luoghi dei pic-nic famigliari, le strade che sono state la palestra dei suoi allenamenti, quei profili prealpini che conciliavano il riposo dopo le corse. Sono trascorsi quasi trent’anni dalla morte, ma chiunque passi davanti alla sua abitazione non può fare a meno di ricordare un campionissimo che è stato ed è nel cuore di tutti gli sportivi che hanno amato e che continuano ad amare il ciclismo.
ALFREDO BINDA (Cittiglio, 11 agosto 1902-19 luglio 1986) è considerato uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi. Tre volte campione del Mondo (1927, 1930, 1932), vanta (con Fausto Coppi e Eddy Merckx) il record di 5 successi nel Giro d’Italia (1925, 1927, 1928, 1929, 1933). La corsa rosa è stata un suo grande terreno di conquiste: 41 vittorie di tappa (primato battuto soltanto nel 2004 da Mario Cipollini), 60 tappe al comando della classifica generale, si è aggiudicato 12 tappe su 15 nel 1927 e ben 8 tappe consecutive nell’edizione del 1929 (record tutt’ora imbattuti). Un altro singolare primato lo si deve alla sua indiscussa supremazia di campione: nel 1930, per “manifesta superiorità” fu addirittura pagato (22.500 lire, cifra corrispondente al premio per il successo finale e ad alcune vittorie di tappa) dagli organizzatori per non partecipare al Giro. Nel suo palmarès anche due Milano-Sanremo (1929, 1931), quattro Giri di Lombardia (1925, 1926, 1927, 1931) e quattro maglie tricolori di campione d’Italia su strada (1926, 1927, 1928, 1929). Si ritirò dall’attività agonistica nel 1936 dopo la frattura di un femore. 115 le vittorie di una carriera iniziata in Francia, dove debuttò come professionista nel 1922. Divenne poi commissario tecnico della Nazionale italiana, riscuotendo per 22 anni successi degni della sua carriera di corridore. E se sulla bicicletta non ebbe mai feeling con il Tour de France (una sola partecipazione, nel 1930: primo sui traguardi di Pau e di Luchon, stava diventando padrone assoluto della corsa ma una caduta lo costrinse al ritiro), sull’ammiraglia si prese la rivincita con gli interessi. Grande stratega e fine diplomatico, riuscì a far andare d’accordo Gino Bartali e Fausto Coppi, incredibili compagni di squadra nella “Grande Boucle”, nella quale Binda fu l’artefice di quattro trionfi: di Gino Bartali nel 1948, di Fausto Coppi nel 1949 e nel 1952, di Gastone Nencini nel 1960.
LE SUE GEMME DA CORRIDORE 3 Campionati del Mondo 1927 – 1930 – 1932 5 Giri d’Italia 1925 – 1927 – 1928 – 1929 – 1933 4 Giri di Lombardia 1925 – 1926 – 1927 – 1931 4 Campionati italiani 1926 – 1927 – 1928 – 1929 2 Milano-San Remo 1929 – 1931
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