Basta una partita di calcio, una vittoria insperata per dimenticare tutti i mali del mondo, o, almeno, i propri? Se questo poteva essere il vissuto del ragazzino-tifoso, di fronte ad un brutto voto, consolato dalla vittoria della squadra del cuore, è giusto che funzioni ancora nell’età adulta o perfino per tutta una nazione? Una domanda forse un po’ moralistica, da non-tifoso per scelta elitaria, che circola ampiamente sui social e nei programmi di intrattenimento, all’indomani della prima partita dell’Europeo di calcio.
La vittoria insperata e la sconfitta imprevista (ma a quale sconfitta si giunge preparati?) scatenano sempre reazioni eccessive e quindi commenti a loro volta eccessivi, al pari delle ‘pagelle’ generosamente attribuite ai protagonisti dell’impresa dai commentatori sportivi. Speriamo di non doverci ricredere già venerdì 17; se non altro potremo dar la colpa al malocchio della data e del giorno infausto.
Confesso che mi ero accostato a questa partita con un certo pessimismo, ma avevo notato una certa carica psicologica fin dal canto dell’inno nazionale – ho pensato – proprio adatto ad una manifestazione sportiva, per parole e musica, più che alla solennità di eventi ufficiali. Ascoltando invece la preponderanza iniziale del tifo avversario e osservando la muraglia rossa del pubblico belga, tutti rigorosamente indossanti la maglia della loro Nazionale, mi domandavo la ragione di questa immagine identitaria forte, a paragone della minoritaria e coloristicamente scialba presenza sugli spalti dei “nostri”.
Non è l’Italia la mecca del tifo calcistico, non siamo molto più numerosi dei Belgi, non siamo anche più vicini del Belgio alla sede dell’incontro? Non dovremmo essere una nazione più coesa del Belgio, fatto per un terzo di Fiamminghi, per un terzo di Valloni e per un terzo di Immigrati (la maiuscola è volontaria) provenienti dai quattro angoli della Terra, come del resto la loro squadra? Vuol dire che dove non c’è un’identità reale e riconosciuta ci si esprime più facilmente in una surrogata?
Non conoscendo abbastanza i Belgi, mi limito agli Italiani. Se l’identità ha a che fare con la coerenza, non c’è dubbio che facilmente ci lasciamo andare a qualche repentino cambiamento: con facilità abbiamo cambiato bandiera in guerra, con facilità cambiamo partito, da un po’ di tempo anche moglie o marito, religione, lavoro, se lo troviamo; cambiamo gusti musicali o artistici, preferenze culinarie ed enologiche, cambiamo di aspetto seguendo la moda, con una sola eccezione: non ho ancora trovato una sola persona che dopo l’adolescenza abbia cambiato il tifo per una squadra di calcio. Non ho trovato un milanista, operaio sindacalista o anarco-insurrezionalista che abbia rinnegato il suo credo calcistico in odio a Berlusconi, né una pasionaria di Forza Italia che abbia abbandonato Juve, Inter o Sassuolo per amore di Silvio.
Questo vuol dire che l’identità, sia pure come surrogato, esiste? Qualcuno ha scritto un libro per sostenere che la Jugoslavia non avrebbe subito il triste destino di guerre e di disfacimento, se un certo giorno di un campionato di calcio, non ricordo se europeo o mondiale, un certo giocatore, non importa se Croato, Serbo, Sloveno, Macedone Montenegrino, Kossovaro o quant’altro ancora, avesse segnato un rigore. Non c’è controprova, come non c’è controprova ai miti fondativi delle religioni e delle civiltà. Mescolo apposta grandi miti e piccoli fatti reali per ricordare che l’ archetipo in cui vorremmo poterci identificare non è realtà fattuale, ma è una elaborazione attraverso il desiderio e la collocazione, al di fuori dello spazio e del tempo, di una immagine ideale in cui il sé coinciderebbe con l’altro.
Mi fermo a questo punto, per considerare l’obiezione che mi farebbe l’amico Sebastiano Conformi: “con queste considerazioni hai fatto fuori non solo l’identità nazionale, ma ogni genere d’identità: religiosa, culturale, di classe, di genere, persino l’identità personale, che potrebbe risultare, come insinua da sempre una certa mentalità scientista, un fascio di reazioni combinate tra antecedenti genetici e stimoli ambientali, con tanti saluti alla libertà intesa come libero arbitrio.
Ma la mia tesi è esattamente l’opposta: proprio dall’indeterminabile relazione tra elementi casuali e i comportamenti volontari dei singoli nascono i fatti, grandi e piccoli della storia. Con un balzo in avanti, apparentemente gigantesco, in realtà anch’esso frutto di una somma di minuscole considerazioni, atterro sul tema che mi ero prefisso: che cosa sono veramente chiamati a scegliere tanti cittadini italiani ed europei nei prossimi giorni, con i ballottaggi in Italia, il referendum in Gran Bretagna, le elezioni politiche in Spagna e, più avanti, aggiungiamo pure le presidenziali USA? In che cosa consiste la difesa delle identità, rispetto al fenomeno migratorio? Ci sono solo interessi in gioco o anche valori? Questi valori sono uno specifico di ciò che chiamiamo Europa?
Prendendo ad esempio tutto quello che sta succedendo in Francia in queste settimane, dagli attentati agli scontri tra tifosi, dagli umori dell’opinione pubblica, agli scioperi ai risultati sportivi, affermo che ci riguarda direttamente, interroga la nostra identità di Europei e non e non mancherà di influire anche sulle nostre scelte elettorali, a torto forse più che a ragione.
Che cosa mi auguro?
Che venerdì vinca l’Italia (a dispetto dei gufi di professione che ce l’hanno con Renzi, o con Conte) e prevalga pure il sentimento. Sarà solo un surrogato dì identità, ma se lo sappiamo non ci farà del male.
In tutte le altre circostanze vorrei che prevalesse invece l’esercizio della ragione da parte di ogni singola persona, nella paziente ricerca di soluzione di tutti i problemi, Brexit compresa, piuttosto che la rancorosa chiusura sulle proprie paure. L’identità dell’Italia e dell’Europa non consiste nel colore delle maglie o della pelle, tanto meno nella generale paura del futuro, ma proprio nella concezione della persona come frutto della inseparabilità di ragione e libertà, nonostante terroristi, hooligans, razzisti, nazionalisti, isolazionisti, populisti, economisti rigoristi e politici opportunisti, tutti dotati di una forte “pretesa identitaria”, provino ogni giorno ad intaccare questa fondamentale convinzione.
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