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Incontri

“BURUNDI” CHE TORNA IN AFRICA

GUIDO BONOLDI - 09/06/2016

 

 

Martedì 3 maggio è partito per l’Uganda il mio caro amico Filippo Ciantia per andare a dirigere l’Ospedale di Kalongo nel nord-est del paese, ospedale fondato da Giuseppe Ambrosoli, medico e padre Comboniano ed attualmente sostenuto dalla Fondazione che del dottor Ambrosoli porta il nome.

Per Pippo si è trattato in vero di un grande ritorno, in quanto in Uganda aveva già speso quasi trent’anni della sua vita, dal settembre 1980 al luglio 2009, quando era rientrato in Italia con tutta la famiglia, oltre alla moglie Luciana i figli Maddalena, Monica, Matteo, Maria, Margherita, Michele ed Emmanuele; dal 2009 al 2016 aveva poi lavorato per l’Expo come project manager, curando in particolare le relazioni con l’Africa e con i paesi in via di sviluppo.

La mia amicizia con Pippo risale al tempo della IV ginnasio al Liceo Cairoli: rimase memorabile la prima ora di lezione, quando l’insegnante di lettere, la signora Taddia, entrando in classe, si mise subito ad interrogare e la scelta ricadde proprio su di lui: “sentiamo Ciantia”; Filippo non la prese bene ed uscì dal banco imprecando sottovoce, così che io ed il mio amico Carlo Piccinelli, in considerazione del suo aspetto non propriamente nordico, gli assegnammo lì per lì il nomignolo di Burundi, senza immaginare che proprio con l’Africa quel nuovo compagno di classe avrebbe avuto in futuro molto a che fare.

Per tutti gli anni del liceo io, Pippo, Carlo e Stefano Giani costituimmo un quartetto inseparabile e soprattutto iniziammo tutti e quattro insieme a partecipare all’esperienza di Gioventù Studentesca e quindi di Comunione e liberazione.

Di questa sua nuova missione ugandese il dottor Ciantia sta tenendo un diario molto puntuale, del quale rende partecipi sua moglie Luciana, che è rimasta in Italia, figli e nipoti ed anche tanti amici, compreso il sottoscritto. Desidero condividere anche con i miei lettori per lo meno un episodio di quanto fino ad ora Pippo ci ha raccontato, come una sorta di ouverture in attesa che lui stesso voglia inaugurare una propria rubrica per RMFonline; il racconto del suo breve ed intenso incontro con una paziente di nome Grace.

“Grace Aryemo è ammessa nel reparto chirurgico da alcune settimane. È  malata di AIDS, ha avuto una grave peritonite, è stata operata e ora stiamo tentando una terapia conservativa perché ha sviluppato una fistola addominale. Ha una prognosi molto grave, per vari motivi: lo stato immunitario, la gravità dello situazione, la nutrizione è problematica (non abbiamo le sacche di nutrizione enterale o parenterale!). Ha un volto scavato e bellissimo, con due occhi da cerbiatto. Vado a vederla tre-quattro volte al giorno: il volto smagrito sul corpo esilissimo si accende di un sorriso unico, con quegli occhi neri come il suo popolo. Mi allunga la mano. Non posso che dialogare con lo sguardo e una presenza partecipata offrendo una mano e un sorriso.

Ma la sua sofferenza e i suoi occhi che implorano vita, mi seguono nella giornata e Grace diventa una grazia per lavorare intensamente, perché forse possiamo, per grazia, fare la differenza per i malati che abbiamo nei reparti (ieri avevamo 115 bambini in pediatria – che ha 61 letti – per una epidemia di malaria).
La grazia come una bella donna che muore e ti richiama al senso della vita con il suo sorriso!
Giovedì mattina, sono passato da lei prima di andare in ufficio. Grace mi ha guardato con quegli occhioni neri, mi ha stretto la mano e mi ha detto “Sto morendo!” E dai suoi occhi è uscita una sola lacrima.
Ho letto recentemente un articolo del Corriere “Ogni lacrima è unica”. Veramente quell’unica lacrima ha racchiuso per me un mondo, un paesaggio stupendo, il suo sorriso e la bellezza, che s’intuisce straordinaria, di questa donna, il suo desiderio di pace e riposo dopo tante sofferenze.
Mi è venuto in mente il passaggio del Talmud: “Dio conta le lacrime delle donne”. Certamente Dio, come me e, forse, attraverso di me, ha benedetto quella lacrima.
Gli Acholi hanno un’espressione molto delicata per esprimere la nascita di un bambino: “Ha aperto gli occhi”. Giovedì mattina Grace ha invece chiuso i suoi occhi di cerbiatto e ha terminato un’agonia che era diventata difficile anche per me sopportare, pur essendomi abituato, negli anni, a convivere con tante sofferenze.
L’ultimo dialogo con Grace è stato particolarmente drammatico e intenso. Martedì sera, verso le 18.30, come faccio spesso, lascio l’ufficio e mi reco nei reparti. La prima tappa, prima della Maternità è la chirurgia. Grace sta parecchio male: la ferita si è allargata e la malnutrizione è gravemente avanzata. Mi guarda e mi allunga il magrissimo braccio, tendendo la mano, così mi avvicino: devo confessare che a volte si fa fatica ad avvicinarsi ai malati, anche perché le ferite infette ti tengono a distanza. Per questo motivo il suo letto è in una sala isolata, con altre due malate.
Inizia a parlare, ma non capisco, chiedo di ripetere. Con un filo di voce sussurra: “I love you”! Rimango sorpreso e per un attimo non so che dire, ma rispondo che le voglio bene anch’io! Per questo la vengo a trovare spesso. Un sorriso… “I am dying?”. È  sempre difficile rispondere a questa domanda, ma negli anni mi sono abituato a essere sincero, cercando di far capire la gravità della situazione a chiunque. Le dico della gravità, ma aggiungo che non molliamo con la terapia e con la nutrizione che abbiamo impostato, simile a quella dei bambini malnutriti. Mi ha lasciato parlare, poi con un filo di voce, senza lacrime ha ripetuto “Ti voglio bene!” aggiungendo: “Rimani con me stasera?” Sono rimasto alcuni minuti, finché si è assopita: la morfina che riceve per il dolore, l’aveva resa sonnolenta.

Ho pensato che attraverso di me Grace parlasse con l’Amato che ora ha raggiunto, perché è bello solo stare con Lui.
Giovedì mattina, la festa del mio santo, San Filippo Neri, all’alba, Grace è spirata. Il mio patrono, famoso per la sua gioia e allegrezza, l’avrà accolta con un sorriso!”

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