Erano le 14 del 27 luglio del ’43, due giorni dopo la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini per ordine del re, quando il portoncino del carcere dei Miogni di Varese al centro delle mura perimetrali lungo via Felicita Morandi, si era spalancato non per accogliere dei fascisti come era immaginabile ma tre nemici giurati del defunto regime. Tre comunisti. Tre “politici” così erano stati catalogati all’Ufficio Matricola, componenti del Fronte Antifascista clandestino di Milano. Soprattutto erano tre qualificate personalità che uscivano dalle tenebre del Ventennio per entrare in quelle di una galera. Qualcosa di impensabile ma che la diceva lunga su quella che sarebbe stata la linea politica dei quarantacinque giorni.
Si trattava dello scrittore Elio Vittorini, trentacinque anni, di Siracusa, residente a Milano, in via Puccini 23 coniugato con Rosa Quasimodo; del professore di filosofia e critico letterario Giansiro Ferrata, trentasei anni, di Milano, residente in via Borghetto 5, coniugato con Ginetta Varisco; del responsabile clandestino del PCI di Milano dottor Salvatore “Totò” Di Benedetto, trentadue anni, di Raffadali (Agrigento) senza fissa dimora.
A consegnarli nelle mani del capo delle guardie – il buon maresciallo Piazzolla – alcuni carabinieri del Comando di Milano partiti poche ore prima dal campo di concentramento dell’Arena dove il neo governo aveva dirottato i responsabili di inaccettabili manifestazioni di esultanza popolare.
Milano era martoriata dai bombardamenti alleati e non era possibile garantire la vita ai detenuti di San Vittore e di quelli ammassati nel campo sportivo.
Il governo militare di Pietro Badoglio, il massacratore con Graziani degli etiopi nella guerra d’aggressione al regno di Hailè Selassie, “ossessionato” dall’ordine pubblico, preoccupato delle sommosse popolari dopo l’arresto del duce, aveva stretto la morsa contro comunisti, socialisti, cattolici, democratici, operai, studenti, intellettuali. Un bavaglio durissimo nei confronti di coloro che nelle strade e nelle piazze, dopo anni di feroce dittatura, gridavano la loro gioia per la fine di un incubo e inneggiavano alla democrazia e alla libertà.
Il pavido marchese di Sabotino temeva che i tedeschi reagissero (in quel momento storico ancora compagni di avventura e a cui era già stato comunicato ufficialmente “che l’Italia non sarebbe uscita dal conflitto”) cosa che comunque, ben prima dell’armistizio, avrebbero fatto, invadendo dal Brennero l’Italia, pronti ad intervenire al momento opportuno. Così le armi avevano preso il sopravvento e coloro che avevano avuto l’ardire di manifestare il proprio giubilo erano stati repressi brutalmente. Per i fascisti il trattamento paradossalmente era stato più morbido. Passati rapporti, interessi politici, collusioni, incertezze su quello che sarebbe potuto accadere, avevano condizionato il comportamento del vecchio e ottenebrato gerarca.
Elio Vittorini, già autore di “Garofano Rosso” e “Conversazioni in Sicilia” e, dopo la guerra, fondatore della rivista culturale “Il Politecnico”, nel 1943 autorevole consulente della “Bompiani” (avrebbe poi assunto alla Einaudi la direzione della collana “I Gettoni”)” conosceva già Varese molto bene ma per altre ragioni. Alla VII Cappella del Sacro Monte, nella villa a forma di nave dei Varisco, costruttori milanesi, viveva quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, la colta e raffinata Luisa Varisco detta “Ginetta” (traduttrice per Einaudi di Vercors), prima moglie dell’amico e compagno di cella Giansiro Ferrata, che avrebbe sposato dopo trent’anni di vita in comune il 9 febbraio 1966 tre giorni prima di morire. Domenico Di Benedetto a Varese era in stretto contatto con il conterraneo di Favara Calogero Marrone, capo dell’Ufficio Anagrafe del Comune, che dopo l’8 settembre avrebbe favorito antifascisti ed ebrei nella fuga in Svizzera.
Della detenzione dei tre intellettuali antifascisti non si sa nulla se non che il 5 agosto, dieci giorni dopo il loro arrivo, alle 13,30 da Milano era giunto l’ordine della loro scarcerazione.
Ma cosa avevano commesso di così grave Vittorini e i suoi due compagni di fede nelle ore tumultuose del 26 luglio da essere colpiti da un ordine di cattura come dei comuni criminali? L’accusa, sintetizzata nell’acronimo “Politici”, era articolata in quella di sommossa popolare, di adunata sediziosa, di incitamento della folla alla rivolta. Accuse da fucilazione dal momento che già dal 27 luglio con effetto retroattivo il ministro dell’Interno Fornaciari aveva dichiarato lo stato di guerra”. Due erano stati i momenti che avevano alimentato l’accusa..
Il primo si era manifestato con un corteo che il 26 luglio, con il passare delle ore, si era fatto sempre più fitto e che attraversando il centro di Milano aveva raggiunto Porta Venezia: Era stato lo stesso Vittorini nel numero del “Politecnico” del 18 dicembre 1945 a rivelare i particolari. Lo scrittore, partito con un gruppo di amici dalla “Bompiani”, si era impossessato lungo il tragitto di un camioncino che sarebbe servito per tenere dal tettuccio un comizio, oratore designato Pietro Ingrao, giunto da Roma per valutare da vicino la situazione e tenere i collegamenti con il Partito. In corso Buenos Aires Vittorini e i compagni avevano razziato da un negozio alcuni microfoni da utilizzare una volta giunti a destinazione. A Porta Venezia la manifestazione aveva assunto proporzioni gigantesche. Ingrao aveva tenuto il suo appassionato comizio inneggiando alla pace e alla rottura immediata del patto con la Germania di Hitler. Gli applausi erano stati scroscianti. All’improvviso la folla, in preda al delirio, era stata circondata da decine di carri armati. Lo scopo era quello di contenere le migliaia di persone e fare cessare quella che era stata giudicata una sfida allo Stato. Proprio in quel momento era avvenuto un episodio inatteso che aveva avuto dell’incredibile: una giovane donna, molto bella, la toscana dell’Elba Anna Gentili, collaboratrice della “Bompiani”, la futura “Lidia” della Resistenza valtellinese, era salita con la velocità di un ghepardo su un carro armato invitando il pilota ad andarsene. Il gesto, coraggioso, aveva creato uno sbandamento. La folla aveva ripreso ad avanzare e i carri armati uno dopo l’altro erano scomparsi.
Secondo momento di quell’emozionante 26 luglio: la folla di Porta Venezia, terminati i comizi (i microfoni collegati alla batteria del camioncino avevano garantito che la voce giungesse in ogni direzione), si era ricomposta dirigendosi con la guida di Vittorini, Di Benedetto e Ferrata verso San Vittore per reclamare la scarcerazione delle centinaia di detenuti politici rastrellati negli anni precedenti dalle squadracce del fascismo. Altri comizi, appelli, canti di libertà. Questa volta i carri armati non si erano però fatti vedere. Tutto sembrava sotto controllo. Ma il fuoco covava sotto la cenere.
La sera del 26 luglio, al rientro in casa di Ferrata in via Borghetto, Vittorini aveva iniziato la riunione di redazione per comporre il primo numero dell’Unità dopo l’arresto del duce. Un avvenimento rilevante dopo anni di clandestinità dove il foglio era uscito raramente e con difficoltà. Con Vittorini erano presenti Ferrata, Di Benedetto, Celeste Negarville, piemontese, uno dei dirigenti più autorevoli del PCI e alcuni collaboratori quando all’improvviso erano arrivati i carabinieri. Nelle mani avevano un provvedimento di cattura. Negarville non era stato riconosciuto e si era salvato. Vittorini, Ferrata e Di Benedetto, ammanettati, erano stati condotti prima al Comando di stazione, poi nel campo di concentramento dell’Arena.
Arrivati ai Miogni avevano incontrato nel tetro e sconcio carcere uomini della loro stessa pasta. Operai, contadini, impiegati, i “nemici” di Badoglio e del suo governo, formato, per capire meglio, da sette militari, un ex prefetto, tre alti burocrati, cinque direttori generali di altrettanti ministeri. Pochi i fascisti catturati e messi ai “Miogni”. Il solo di un certo peso era stato l’ultimo vice segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista, Carlo Ravasio di Somma Lombardo, che “soggiornò” pochi giorni, recuperato dopo l’8 settembre dai nazifascisti.
A Varese Elio Vittorini sarebbe tornato come è noto nella tarda primavera del ’44, questa volta fuggiasco, inseguito dagli sgherri della RSI, dopo aver organizzato a Firenze per conto del PCI lo sciopero generale delle fabbriche. Gli era andata bene. Con il tram era salito sino alla Prima Cappella, poi aveva raggiunto a piedi casa Varisco dove era rimasto sino alla Liberazione. Da lì aveva continuato a tenere i rapporti con il Partito attraverso le staffette Gisella Floreanini (futuro ministro della Repubblica dell’Ossola) e Tiziana Bonazzola, coraggiosa gappista locale. Le uniche passeggiate, quando poteva, erano quelle compiute in bicicletta a Varese dove nel negozio di via Veratti di Augusto Zanzi, una vera base partigiana, si incontrava con Renato Morandi, Quinto Bonazzola il vice capo del “Fronte della Gioventù” di Eugenio Curiel e con “Claudio” Macchi.
Quando il 25 aprile aveva ripreso la strada per Milano Vittorini stringeva fra le mani il testo di quell’ “Uomini e no”, la storia degli italiani nella Resistenza, il primo grande romanzo della nuova Italia, scritto nell’esilio forzato della montagna sacra.
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