Non ho mai dimenticato il giorno in cui Buzzati morì, quarant’anni fa. Era il 28 gennaio 1972. Ricordo che nevicava. Lo ricordo perché la stessa neve si portò via il giorno dopo anche la mia giovinezza, insieme con mia madre. L’ultima nitida immagine che ho di lei risale a quel tardo pomeriggio invernale.
La osservo dall’alto, dalle vetrate di una clinica di provincia dove lei morrà all’improvviso, la mattina seguente, ai piedi del letto di mio padre. La vedo nella luce pallida di un lampione, sotto lo sfarfallio del nevischio, mentre attraversa il parco ormai buio con un ombrello di fortuna, che a tratti minaccia di richiudersi. Io resterò con papà ancora per qualche ora, più tardi lei tornerà di nuovo qui, con lui, per la notte: ci diamo il cambio in famiglia per non lasciarlo mai solo, gli si prospetta un intervento importante, e noi vogliamo stargli vicino. Continuo a seguire con lo sguardo la cara figura di lei che si dirige verso l’uscita, finché la macchia scura delle conifere la inghiotte nell’ombra della sera. Poi torno da papà. Mi siedo sulla poltrona davanti al suo letto, apro il libro di diritto internazionale che mi sono portata da casa: presto dovrò dare l’esame. E riprendo a studiare.
Nei giorni a venire, dopo il funerale di mamma, gli saremo più che mai vicini. Ricordo i nostri profondi silenzi nella camera d’ospedale, mentre lui sfoglia i giornali, assorto nella lettura con la serietà consueta, gli occhi asciutti, senza cedimenti a una commozione che non vuole infliggere ad altri. Legge il Corriere, sua lettura quotidiana da sempre, assieme al giornale locale. E io intravedo sulle pagine la foto di Buzzati, lo riconosco dai capelli a spazzola, dal viso aristocratico, scarno e austero, dal brillio degli occhi bruni accesi dal fuoco della curiosità. Il mio dolore non m’impedisce di pensare a quest’altra morte, così recente e vicina a quella di mia madre. La colgo come un segnale in più di come la vita sia mutevole per ciascuno, e simile per certi appuntamenti indifferibili che ci riguardano tutti. Quegli appuntamenti Buzzati li raccontava e anticipava, o forse cercava di esorcizzare, nei suoi scritti carichi di mistero.
Per me Buzzati allora non era uno sconosciuto. Mi tornava alla mente proprio in quei giorni una sua frase: “Ogni dolore viene scritto su lastra di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta un’eternità a cancellarlo”. Non ricordo se leggessi con fedeltà i suoi indimenticabili reportage – eccezionali come quello sul Vajont, scritto nel ’63, e entrato negli annali del miglior giornalismo – ma di certo in quell’inizio degli anni Settanta non mancavo gli appuntamenti con la terza pagina del Corsera, diretto allora da Giovanni Spadolini, dove si alternavano, tra gli altri, i racconti di Alberto Moravia, di Piero Chiara e quelli dell’estroso giornalista di Belluno. Io prediligevo i racconti di Moravia, per quel fraseggiare pulito che mi ha sempre incantato, per il fascino della sua scrittura razionale e sensuale insieme. Ne ricordo uno in particolare, che non mi è più riuscito di ritrovare in nessuna raccolta moraviana, e che vorrei tanto rileggere. Con un pizzico di fortuna, un giorno o l’altro forse mi capiterà tra le mani.
Piero Chiara mi piaceva a sua volta, perché mi pareva offrisse al lettore un approccio semplice ma insieme non superficiale con il piccolo mondo dei suoi racconti, dove la geografia dei luoghi e dell’anima della provincia s’intrecciava gioiosa con la malinconia umida dei ricordi, nel gioco di una scrittura ora godibilmente ironica ora evocativa. Buzzati mi sembrava invece il più difficile da avvicinare e anche quello che più mi impressionava e mi attraeva e respingeva insieme. Le vicende e i pensieri affioranti dalla sua narrativa apparivano inafferrabili e venati di mistero. Ma mi affascinavano proprio per quella capacità suadente della scrittura a trascinare il lettore ovunque, anche nell’inferno delle situazioni narrate. Quasi la sua parola corresse a briglia sciolta, come un cavallo focoso destinato a galoppare verso il precipizio assieme a chi gli si consegnava, non riuscendo più a distaccarsi finché non fosse lo stesso autore a dire basta alla folle corsa, un passo prima del baratro. Sentivo che la lettura fatta, chiusa la pagina, continuava ad avvolgerti in quell’aura di sgomento e mistero, in quel mix di dramma, di ironia fredda, di magia che solo lui sapeva dosare, e in un’atmosfera di vicende e personaggi che parevano irreali, ma, in verità, a uno scavo più approfondito, avvertivo molto più vicini ad ogni vita di uomo di quanto non fosse nei razionali racconti di Moravia e di Chiara. Col tempo percepii quelle due morti, di mia madre e di Buzzati – così lontane tra loro e vicine per me, non solo nella cronologia del distacco – come un unico evento. E quanto letto o intuito dalle divinatorie parole dell’autore dei “Sessanta racconti” e del “Deserto dei tartari” , mi pareva rafforzare l’idea della presenza accanto a me – e a ciascuno -, di una luce da sempre accesa per far chiarezza e per accogliere chi deve arrivare e presto o tardi arriverà, e busserà alla porta.
Conoscevo di Buzzati anche la sua vena pittorica: avevo visto articoli con fotografie dei suoi quadri: ricordo in particolare certi enormi cani, divertenti mastini con occhi della dimensione di scodelle, come nel racconto “L’acciarino magico” di Andersen. A due anni dalla morte dell’artista, l’amico pittore Vittore Frattini fece dono a mio marito, in occasione delle nostre nozze, di un inchiostro a china di Buzzati: un lavoro, severo e gioioso insieme, del 1961, la raffigurazione, assolutamente buzzatiana, di un castello, tratteggiato con linee spezzate e alte guglie, simili alle cime delle Dolomiti, che s’eleva solitario verso il cielo. Attorno alle guglie del castello corrono nel quadro pensieri e parole, vergate dalla stessa mano dello scrittore-artista, con le caratteristiche zeta che s’allungano verso il basso, come appaiono anche nell’inconfondibile firma a matita.
Quel regalo, ancora oggi particolarmente caro, chiudeva il cerchio di uno strano incontro d’affezione tra lettore e scrittore, di combinazioni dolorose e cronologiche destinate a perpetuarsi nel ricordo, e di un’empatia, mai tradotta in conoscenza, vissuta sul filo magico della parola scritta. Nel prodigio di quella dote di affabulazione divinatoria che Buzzati spendeva, da sciamano della carta stampata, a piene mani.
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