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Donne

IN VIA CIMAROSA

LUISA NEGRI - 02/06/2016

brunellaInsegnante varesina, Giulia Brunella (1921-1999) nel ’44 nascose nella casa dove abitava con la famiglia due amiche ebree perseguitate, il cui padre morì in un lager. La sua figura, rievocata dall’amica Anna, è emblematica di un coraggio che non fu di tutti.

Mi chiamo anch’io Anna. Non ho dovuto nascondere la mia giovinezza, come Anna Frank, in una soffitta sotto il tetto, guardando il cielo dal riquadro di un lucernario.

E se lo desideravo potevo anche uscire di casa, e respirare l’aria della primavera e dell’estate, pur facendo attenzione che nessuno mi spiasse. Solo per un certo periodo mi sono ricoverata tra le pareti di un collegio femminile gestito da religiose.

Ma se oggi sono qui lo devo alle suorine del Rosetum e, soprattutto, a una cara amica. Lo fu davvero, per mia sorella e per me, in quel 1944. La ricordo così: con l’abitino scozzese e il golfino appoggiato sulle spalle, le scarpe col tacchetto, i capelli corti e ondulati sempre in ordine. E un goccio di acqua di colonia Jean Marie Farina sul fazzoletto ricamato. C’incontravamo già di primo mattino. Insegnava in un istituto privato della città. Percorreva i portici vecchi con passo deciso, le spalle diritte, la figura slanciata. Giulia era la miglior amica di mia sorella, avevano frequentato insieme le scuole magistrali. Nutrivano la loro amicizia di sogni e confidenze, erano vicine per letture e per libri, per cinema, per sogni e per amori. La loro era un’intesa vera, che sai che c’è, che non ha bisogno di conferme. E io ero a mia volta amica della sorella di Giulia.

Pur avendo perso la madre da poco, lei aveva saputo affrontare quella prova con grande dignità e forza, diventando il perno della famiglia, rispondendo alle difficoltà della vita con lo studio e con il lavoro. Completate le magistrali, si era iscritta a Ca’ Foscari. Fu la guerra a impedirle di continuare lo studio che amava tanto.

Anche per me e per la mia famiglia non erano certo anni facili. Mio padre, ufficiale del Savoia Cavalleria, era stato destituito del titolo di maresciallo maggiore nel ’39. Aveva fatto la Grande guerra ed era stato tra quelli entrati in Vittorio Veneto. Si era sempre rifiutato di giurare perché, diceva, lui aveva giurato una sola volta al re. Ma mio padre, agli occhi del regime, aveva un torto ancora maggiore: era ebreo. Vivevamo in un appartamento nell’edificio della caserma Garibaldi. Dovemmo lasciarlo perché qualcuno che ci conosceva bene, e al quale forse facevano gola le nostre stanze, aveva denunciato mio padre. Con lui e la mamma eravamo rimaste Luigia ed io: le due sorelle maggiori s’erano sposate in quell’anno. Non ci eravamo rese conto, fino ad allora, di cosa significasse sentirsi diversi. Cominciammo a capirlo. Papà aveva sangue metà spagnolo -per parte di madre- e metà genovese. La “colpa” era in quest’ultima metà del suo sangue. E la differenza, che mia madre non aveva mai sottolineato, forse presagendo quel che sarebbe accaduto, la si vedeva in certe abitudini. Ricordo che mia madre diceva il rosario tutte le sere; il babbo, che presenziava per riguardo verso di lei, non accompagnava con la voce le nostre preghiere. Se ne stava appoggiato al tavolo, a testa china. Soltanto alla fine della recita rispondeva: amen.

Perso il nostro appartamento, ci trasferimmo, non senza difficoltà, in una casa di Giubiano. E intanto, invece di migliorare, la situazione andava peggiorando. Si stava aprendo per noi un periodo sempre più buio: in quel ’44 mi fu tolto anche il posto di lavoro: però non avevamo smesso di sperare: uno zio d’America ci diceva che presto sarebbe tutto finito, che la liberazione era ormai vicina.

O forse era anche l’arrivo della primavera a illuderci che le cose si sarebbero messe bene. Mamma cercava di renderci la vita egualmente piacevole: si dava da fare in cento modi, soprattutto in cucina, per presentarci al meglio quello che si riusciva a rimediare. S’era inventata una crema senza farina che a noi piaceva tanto, la serviva nei bicchieri a calice, con sopra la ciliegina sotto spirito. A volte ci faceva trovare le calze o i cioccolatini nel cassetto della notte: e vicino, il biglietto con scritto “grazie”. Era il suo modo di dirci che ci voleva bene, che capiva quanto anche noi facevamo per lei. Ad aprile arrivarono, come ogni anno, i giostrai. Sostavano nel piazzale dietro la stazione, portavano svago e allegria. In un certo giorno di quel mese, a noi ragazze venne voglia di andare alla fiera. Desideravamo buttarci alle spalle le nostre preoccupazioni, ci pareva che finché le giostre continuavano a girare di paese in paese col loro carico di colori e risate niente sarebbe potuto accadere.

Ma quando ritornammo la sera, stranamente mamma non c’era. Non era mai capitato di trovare la casa vuota. Ci sembrò un brutto segnale.

Poi scorgemmo un biglietto: “Papà è in questura, venitemi a prendere”. Fu l’inizio dell’odissea senza speranza di nostro padre.

Quel giorno il papà era stato fermato in Varese. Mentre lo conducevano ai Miogni, senza farsi accorgere dai militi, era riuscito a consegnare il portafogli con i documenti a un conoscente, perché ce lo facesse avere.

Nei giorni seguenti venne trasferito nel carcere milanese di San Vittore. Vi rimase fino a maggio. Ci inviò, il 22 dello stesso mese, due lettere, le sole che gli riuscì di farci arrivare, scritte su di un unico cartoncino di fortuna, color paglierino. Erano indirizzate a mamma e al fratello. Mio padre invitava lei a farsi coraggio, a non disperare. Al fratello chiedeva di aiutarci e sostenerci.

Poi fu destinato al campo di concentramento di Fossoli. Mia madre, con altre donne di Varese che si trovavano nella sua stessa condizione, riuscì ad andarlo a trovare più volte, nascondendosi in un camion che trasportava generi alimentari. S’aggrappò con tenacia a quel filo tenue di comunicazione: poté vederlo, dietro la rete di recinzione, e parlargli. Finché un giorno papà partì da Fossoli per destinazione ignota. Perdemmo da allora ogni contatto.

Fu in quell’occasione che Giulia manifestò tutto il suo senso dell’amicizia e il suo coraggio. Ci eravamo confidate, le avevamo manifestato le paure di nostra madre: temeva che anche le figlie potessero sparire da un giorno all’altro. Con grande spontaneità Giulia ci offrì di trascorrere le notti da lei, nell’appartamento di via Cimarosa, che condivideva con il padre e la sorella. Riuscì, per tutto il tempo in cui fummo sue ospiti, a farci sembrare quei giorni meno amari, senza sottolineare il rischio che la sua famiglia doveva affrontare per noi.

E ci donava la sua amicizia dolce e ospitale con un tocco tutto femminile. Aveva da poco frequentato un corso di economia domestica, a Roma: la sera si divertiva a cucinare per noi raffinatissime gelatine di frutta. Quel gusto di frutta ha mantenuto per me il sapore dell’amicizia.

La casa delle nostre amiche, nonostante la mancanza della madre, odorava di pulito: c’erano i riti femminili del bucato, che andava messo a bagno nel sapone di Marsiglia, c’erano i piatti da lavare la sera.

Di giorno, uscendo di casa con circospezione, andavamo a leggere i romanzi della Medusa nei prati attorno alla cappelletta della Madonnina di Bobbiate. La sera ci calavamo, attraverso una scala interna, al cinema Centrale, che si trovava in quello stesso edificio di via Cimarosa. Ci sedevamo alle spalle dell’operatore, potevamo assistere alla proiezione senza che gli altri si accorgessero di noi.

Giulia e mia sorella avevano due storie d’amore importanti. Si rivelavano continuamente segreti, vedevo passare tra le loro mani lunghe lettere. E anch’io non ero esente dalle cotte di gioventù: non potevamo rinunciare alla vita e ai nostri vent’anni.

Di giorno ci incontravamo con mamma. Lei era rimasta sola nell’appartamento: non temeva per sé, perché non aveva sangue ebreo. E si faceva forte per noi, cercando di non far trasparire il suo profondo dolore. Non la vidi mai piangere. La ricambiavamo con altrettanta forza di volontà, quella volontà atavica, certo ereditata da papà, che ti dà la capacità di affrontare il peggio. Non volevamo lasciarci andare, sapevamo lottare, nonostante tutto, e qualcosa ci diceva che era giusto così.

Ancora oggi avverto dentro di me quel misto di malinconia e di orgoglio che mi ritorna da lontane radici, che mi ha indotta a non piegarmi di fronte alle tante difficoltà della vita, alle terribili rivelazioni del dopo. Ma si dovette scappare di nuovo, lasciare la casa di Giulia e trovare un rifugio più sicuro: le delazioni erano numerose, quasi quotidiane.

Ci accolsero le buone sorelle del Rosetum, a Besozzo. Ci assegnarono una stanzetta tutta per noi. E non tardammo ad accorgerci che la stessa pietà s’applicava indistintamente tra quelle mura ad altre persone. Con noi c’erano due figlie di un gerarca fascista. Arrivò anche un gruppo di tedeschi: non riuscivano a capire cosa facessero lì due ragazze, durante l’estate. Le suore li imbrogliavano coi loro sorrisi candidi e sereni, con le risposte pronte. Furono, come Giulia, splendide amiche in quegli anni di triste persecuzione.

Finì finalmente la guerra. Cercammo inutilmente di avere notizie di papà. Qualcuno ci confermò di averlo visto incontrare la morte, come milioni di altri ebrei, davanti alla bocca di un forno.

Oggi ricordo con nostalgia le sue attenzioni. Di quando veniva a trovarmi all’ospedale, perché avevo la rosolia e dovevo scontare la quarantena e mi passava dal vetro i giornali che mi piacevano. O di quando mi diceva: “Oggi ti porto all’opera”. Accendeva la radio, mi appoggiava uno scialle sulle spalle, mi metteva il libretto tra le mani e, accanto, il pacchetto delle caramelle. Mi raccontava il primo atto. E poi via, ci addentravamo nell’opera, presi dalle musiche e dalle voci. Eravamo lui e io, e potevamo dimenticare il mondo. A volte mi portava a vedere gli spettacoli del carro di Tespi, che sostava proprio nella piazza del mercato. E ricordo anche quella domenica in cui papà fece trovare un biglietto sotto il piatto di ciascuno. Era il biglietto per l’opera: nel pomeriggio ci condusse tutti a Milano, ad ascoltare le arie di Puccini e di Wagner.

Papà aveva il culto dei morti. “Vedrai che i morti ci aiutano” diceva a mia madre mei momenti di difficoltà. Non saprei dire se lui fu aiutato. O forse sì: almeno le sue donne furono risparmiate. E riuscì a tenersi in contatto con noi finché gli fu possibile.

Certo qualcuno dei vivi ci aiutò. Con Giulia fummo amiche di una vita. Lei continuò la professione di insegnante, convinta del suo ruolo di educatrice, persuasa che andasse esercitato più con l’esempio che con le parole. Non voleva dire troppo neppure di questa vicenda, non se ne vantava, la raccontava come una prova di generosità che chiunque avrebbe potuto offrire.

Sappiamo che non fu così. Non tutti dimostrarono il coraggio di Giulia e delle suorine del Rosetum.

Il nome di mio padre è scritto per sempre nella lista infinita di milioni di esseri umani annullati nei lager.

La grigia contabilità dei pochi dati comunicati dice: imprigionato dalla polizia italiana l’8 maggio del ’44, destinazione ignota, deceduto nello stesso anno.

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