Soltanto ora, nella fiera delle promesse elettorali, si sente parlare di futuri parchi e di banche-dati della terra. Intanto i terreni agricoli intorno a Varese sono diminuiti del 5% in dieci anni e la provincia conferma il pessimo quarto posto tra le più cementificate d’Italia dopo Milano, Napoli e Monza-Brianza (dati Istat-Coldiretti). L’agricoltura è soffocata dagli adempimenti burocratici (120 in Italia, 12 in Inghilterra, secondo Confagricoltura) e scoraggia il ritorno dei giovani alla terra. La salvaguardia dell’ambiente e la tutela del paesaggio sembrano concetti lontani anni-luce dalla politica lombarda e dietro l’angolo ci sono altri ettari di suolo divorati da Pedemontana, Arcisate-Stabio e tangenziale esterna est di Milano.
Già dieci anni fa la parola d’ordine dell’assessorato alla tutela ambientale del Comune, alla vigilia della redazione del piano di governo del territorio, era “salviamo il salvabile”: troppi danni al verde pubblico, il lago inquinato, i dissesti idrogeologici provocati dagli scarichi fognari, le case e le fabbriche costruite su cigli franosi, gli alberi abbattuti per costruire disomogenei condomini.
È impietoso il paragone con il Varesotto bucolico descritto a metà dell’800 dal conte Giorgio Gallesio, illustre botanico e naturalista, che percorse la penisola in lungo e in largo per descriverne il patrimonio arboricolo nei “Giornali dei Viaggi” documentando le caratteristiche dei frutti e descrivendo città, strade, campagne, paesaggi, commerci, usi e costumi del popolo. I suoi diari sono una preziosa testimonianza delle bonifiche dei terreni, degli allevamenti zootecnici e delle tecnologie enologiche allora in auge. Nel 1821 visitò l’area prealpina soffermandosi a Gallarate, nelle Isole Borromee e a Varese, di cui lo colpirono “le belle ville che sembrano quadri”.
“Tutto questo paese – scrisse – è coperto di casini circondati da giardini, boschetti, vigne, frutteti e la campagna che li divide è coltivata a vigne e verdura, erba di miglio, granoturco e altro, tutto molto verdeggiante e pittoresco. Le pesche sono i frutti tipici di Varese. Si trovano ovunque, si vendono a dieci, dodici soldi l’una e sono molto richieste a Milano”. Sempre a Varese Gallesio assaggiò susine, mele, pere grigie e bianche e nei rigogliosi frutteti delle ville trovò varietà francesi di Chambery. Assaporò tre tipi di ciliegie colte dagli alberi piantati tra le viti e una fitta produzione di fichi, chiamati in loco baratini e moscatelli.
Altri fichi eccellenti il botanico gustò a Gallarate e Sesto Calende spiegando che del tipo verdone erano “piene le piazze di Milano”. A Somma Lombardo provò invece le squisite pere burè. Non è un caso che mezzo secolo più tardi il presidente del Comizio Agrario, Giuseppe Speroni, deputato in Parlamento e futuro senatore del Regno d’Italia, suggerisse nella relazione tenuta all’Esposizione di Varese del 1886 la produzione intensiva di pesche, ortaggi e barbabietole. Concorsi speciali riservati alla frutta e alle verdure varesine si tennero anche nove anni più tardi, nell’Esposizione del 1895.
E l’uva? Nel ‘700 i conteggi dei filari erano gran parte del catasto di Maria Teresa d’Austria e ai primi dell’800 Carlo Porta declamava in versi i vini di Tradate, Angera e Varese. Secondo i climatologi dell’Università di Milano, i colli varesini hanno un clima più caldo e favorevole perfino di quello di Reims in Francia, la patria dello Champagne. Purtroppo, l’agricoltura prealpina è vittima dell’eccessiva urbanizzazione. In dieci anni, dal 1990 al 2000, la superficie coltivata si è ridotta del 33% e il numero delle aziende agricole è crollato del 57%. Il Varesotto è il fanalino di coda in Lombardia con appena il 18% della superficie agricola utilizzata e la regione in mezzo secolo ha aumentato il suolo urbanizzato del 235%.
Recenti rilevazioni fotografiche aeree mostrano un fortissimo incremento urbanistico e l’avanzata dei boschi nelle zone abbandonate. La densità della popolazione sulla collina è di 882 abitanti per km quadrato, come la periferia di una metropoli. Che si può fare allora per difendere la terra? Prima di tutto evitare di commettere gli errori del passato. Dopo decenni di saccheggi del territorio è necessario azzerare il consumo di suolo libero, eliminare le speculazioni e sostituire il patrimonio edilizio vecchio o dismesso senza togliere nuovo spazio al verde. Ci vuole il coraggio di demolire gli edifici inservibili e i capannoni abbandonati e ricostruirli con criteri di risparmio energetico, pannelli solari e sistemi eolici. È un pezzo di città e di provincia che deve essere recuperato.
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