Manca pochissimo al 5 giugno. Salvo imprevisti e colpi di scena, ci sembra di poter dire che la campagna elettorale per il rinnovo dell’amministrazione comunale di Varese si è svolta in un clima pacifico e sereno. I partiti hanno sfoderato i loro big nazionali, i candidati hanno illustrato i loro programmi, gli amministratori uscenti si sono dedicati con dedizione al taglio di nastri e alla collocazione di cippi commemorativi, gli slogan sono stati tutti confezionati come in una onesta campagna commerciale: parole accattivanti, buone per tutte le stagioni e per ogni palato e generalmente prive di contenuti politici. Qualcuno ha fatto ricorso a promesse già sentite (ma riproposte su scala ridotta); qualcun altro ha tirato in ballo i santi. Pochi i comizi, numerosi i gazebo, molti gli “eventi”, come si usa dire oggi. Ma tutto si è svolto in un clima sonnacchioso e pacifico.
Luigi Ambrosoli, illustre storico e grande cittadino, osservava che «il voto varesino, almeno fino agli anni Ottanta, quando si fece strada il fenomeno Lega, fu un voto abbastanza stabilizzato», rispecchiava, cioè, con minime differenze, l’orientamento e le percentuali nazionali. A dimostrazione, aggiungeva Ambrosoli, dell’assenza, in città, «di un particolare sostrato politico locale e [del]la carenza di un dibattito politico così vivace da portare a situazioni particolari».
Per veder divampare la fiamma di una passione politica in grado di animare le campagne elettorali, dovremmo andare a cercare nella ormai lontana, lontanissima Prima Repubblica. Epica, come si sa, fu quella del 18 aprile del 1948, quando il Paese, ancora segnato dalla guerra, conobbe per la prima volta una «politica all’americana», come la definì Enzo Bettiza in un romanzo del 1953, intitolato, appunto, La campagna elettorale. Una politica nuova, nei modi, nei contenuti e nelle forme, che riuscì a scaldare la pur politicamente tiepida città di Varese.
Proviamo a ripercorrere, ad esempio, la giornata di domenica, 4 aprile 1948, quando ormai mancavano solo due settimane all’apertura dei seggi elettorali.
A Varese, in Piazza Monte Grappa, dalla mattina alla sera sarebbero andati in scena comunisti, monarchici, fascisti, democristiani e liberali. Il giornale umoristico cittadino, «Il Mattocco», commentò: «Settimana interessante e pazzerellona […] che il cronista della vita cittadina dovrà ricordare però come una delle più salienti, non fosse altro per il tornado dei comizi svoltosi domenica scorsa in piazza Monte Grappa, non certo per iniziativa dell’Azienda Autonoma o dell’Ente Provinciale per il Turismo, ma per volere e bisogno della mezza dozzina di partiti allignanti anche all’ombra del nostro Bel Sanvittore.»
Verso le undici, accompagnato da Giovanni Grilli, segretario della sezione varesina del Partito comunista, salì sul palco Luigi Longo. La notte precedente, sui manifesti che annunciavano il suo comizio, il cognome Longo era coperto con la scritta «Maresciallo di Dongo», con riferimento al presunto tesoro che avrebbe avuto con sé Mussolini nel momento in cui fu fermato presso la località omonima, lungo la strada che costeggia il lago di Como.
Longo parlò di fronte ad una piazza gremita (per stessa ammissione della Questura), ma, verso la fine del comizio, dal tetto dell’edificio del caffè Socrate furono lanciati manifestini che riproponevano slogan dei Comitati civici, l’organizzazione creata da Luigi Gedda su incarico del pontefice: «Nel segreto della cabina Dio ti vede, Stalin no!»; «Il tuo voto deve salvare la Patria e la Famiglia».
Luigi Longo si limitò ad un veloce commento e portò a termine senza altre interruzioni il suo discorso.
Nella stessa piazza, nel primo pomeriggio, il Partito monarchico incontrò i suoi (pochi) sostenitori. La riunione politica si tenne nell’austero salone della Camera di Commercio. A seguire, nello stesso luogo, si svolse la manifestazione del Movimento sociale italiano. A questo punto, però, gli animi iniziarono a scaldarsi, raggiungendo subito temperature elevate. Nel salone si raccolsero circa 500 persone, buona parte delle quali giunte da Milano su tre autocarri. Presero la parola il dott. Gian Luigi Regazzoni, segretario provinciale del partito, e il dottor Gatti. Era ancora fresca e tristemente presente alla memoria la retorica fascista e così, quando il dottor Gatti si lanciò nell’esaltazione della missione civilizzatrice dell’imperatore Augusto, il presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Giuseppe Cattabiani, strappò di mano all’oratore il microfono e invitò i rappresentanti della Pubblica sicurezza a interrompere la manifestazione per la palese apologia del fascismo. Immediatamente la situazione precipitò: dalla piazza, militanti del Fronte popolare ed ex partigiani tentarono di entrare; i fascisti si asserragliarono all’interno, sbarrando le porte. «A guastare tutto – riferì il cronista del «Mattocco» – l’intervento spazzapiazza degli agenti della polizia che col loro manganellino hanno con coscienza distribuite piccole stangate un poco agli uni ed un poco agli altri».
Alla fine, i militanti del Msi dovettero essere scortati fino all’autostrada e, considerato il clima, il previsto comizio della Dc fu annullato. La calma fu raggiunta sul far della sera, quando alle 21, l’onorevole Epicarmo Corbino poté svolgere in tutta tranquillità il comizio del Partito liberale.
Altri tempi, si diceva, e altre passioni. Paradossalmente, nell’era dei media «sociali», la politica sembra essersi quasi del tutto sbarazzata delle persone e dei loro atomi, per proiettarsi in una dimensione quasi esclusivamente digitale.
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