Nell’anno del Giubileo non poteva mancare a Roma una mostra sullo stesso tema. Si intitola “La Misericordia nell’arte” e si apre lunedì 30 Maggio ai Musei capitolini esponendo una trentina di opere realizzate tra il Quattrocento e l’Ottocento. Ci saranno quadri di Piero della Francesca, Martini, Memmi, Caporali, Signorelli. Ma uno dei piatti forti è la riproduzione fotografica a grandezza naturale delle “Sette Opere di Misericordia” realizzata da Caravaggio a Napoli nel 1606.
Per chi ha avuto modo di visitare il dipinto esposto a pochi metri dal Duomo con un ingresso quasi seminascosto in via del Tribunale, una esperienza indimenticabile. Il Cinquecento è finito. Regna la Controriforma. A Roma Caravaggio è famoso. La sua fama è intrisa di benessere e d’invidia. La sua vita passa tra fasti di palazzi e miserie di strada. Vita dipinta, nella verità delle cose tra la gente. Vita romana, fino a quando, in una rissa al gioco della pallacorda, un uomo restò ucciso.
Nasce così la fuga del pittore a Napoli, ultima tappa prima della sua morte precoce. Qui la congregazione benefica del Pio Monte della Misericordia costituita da giovani aristocratici gli commissiona la realizzazione di un quadro sulle opere della carità: le sei enunciate da Cristo nel Vangelo secondo Matteo più la sepoltura dei morti che a seguito della recente carestia era diventata per la città un problema cruciale.
Il risultato è geniale: uno scenario di strada fuori dal senso comune della pittura che anticipa di quattro secoli l’avvento della fotografia. La tela di grandi dimensioni (390×260 metri) è divisa orizzontalmente in due ‘quadri’: c’e’ un ‘sotto’ che pulsa di vita di vicoli, rimanda a personaggi biblici, riunisce secondo il criterio della contemporaneità i personaggi. C’è un ‘sopra’ divino fatto di Madonne e angeli che guarda, ispira e interviene.
Sulla destra il “Seppellire i morti” è raffigurato con il trasporto di un cadavere di cui si vedono solo i piedi, da parte di un diacono che regge la fiaccola e un portantino. Il “Visitare i carcerati” e il “Dar da mangiare agli affamati” sono concentrati in un singolo episodio: quello di Cimmone che condannato alla morte per fame in carcere fu nutrito dal seno della figlia Pero, e per questo graziato dai magistrati.
Sulla sinistra “Vestire gli ignudi” con una figura di giovane cavaliere, un San Martino di Tours che fa dono del mantello ad un uomo visto di spalle, allo stesso santo è legata la figura dello storpio in basso, anche questo episodio è un riferimento alla agiografia di Martino, emblema del “Curare gli infermi”. L’uomo che beve da una mascella d’asino è Sansone, messo lì in controluce a rappresentare il “Dar da bere agli assetati”. Nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore.
Infine “Ospitare i pellegrini” riassunto da due figure: l’uomo all’estrema sinistra che indica un punto verso l’esterno, ed un altro identificato per l’attributo della conchiglia sul cappello, segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela.
Tutto appare com’era Napoli: la gente, la strada, le ombre, il fracasso. La dialettica dei contrasti, l’inferno e il paradiso. La luce dell’azione in un quadro denso, vario, avventuroso come la città.
Nessuno dei personaggi della parte bassa mostra interesse per la presenza del gruppo celeste in alto. Le creature come verità nude volano abbracciate, osservano lo svolgimento delle opere di compassione, rese possibili e meritorie attraverso la grazia di una Madonna dai tratti di signora del popolo con in braccio il suo bambino. Gli angeli, protagonisti dalle braccia tese, cadono sulla scena come per gioco. L’ombra si riflette sul muro del carcere, un’ala tocca le sbarre della prigione.
Anno giubilare della Misericordia. Chi ha avuto modo di leggere il libro-intervista con Papa Francesco di Andrea Tornielli sul tema ne avrà tratto tra l’altro un’esperienza di grande energia. La Misericordia divina come un flusso vitale capace di ri-generare ogni situazione umana: la stessa energia che emana dal dipinto del Merisi.
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