Quando ho sentito il leader di un importante partito del Nord incitare alla disobbedienza, a seguito dell’introduzione nello Stato della legge sulle unione civili, ovvero sulle unioni registrate e regolamentate tra persone dello stesso sesso, sono trasalito. E non tanto per la proclamazione di contrarietà, del tutto legittima e tra altro già manifestata nel passato in occasioni diverse, quanto per l’incitazione alla disobbedienza in sé e – soprattutto – per il riferimento a un personaggio, don Lorenzo Milani, il famoso parroco di Barbiana, di cui nella metà degli anni Sessanta fu pubblicato un volumetto intitolato “L’obbedienza non è più una virtù”.
Ora non s’è capito bene a quale titolo quel personaggio politico del Nord, talvolta provocatore di mestiere, si sia espresso citando (a casaccio) così illustri precedenti. Come cattolico e come teologo studioso del diritto? Non direi, considerato per esempio che sulla famiglia – stando a quanto si legge sui giornali –, la sua posizione non sembra proprio essere allineata a quella della Chiesa. Come “politico sui generis”, dunque, certamente, e presto orecchiato da suoi seguaci abituati da anni, spesso per insipienza, a sposarne tutte le cause, giuste e sbagliate che siano. Più spesso le seconde.
Perché il riferimento a don Lorenzo Milani, nel caso in questione, è del tutto fuori luogo. Tanto più se richiamato da chi, per esempio, vorrebbe vedere ripristinato il servizio militare obbligatorio, pronto egli stesso a indossare la mimetica per andare a combattere l’Isis. E qui si sfiora il ridicolo. Un atteggiamento tipico di chi il servizio militare non l’ha fatto o, se l’ha fatto, l’ha trascorso in massima parte nella fureria di qualche caserma milanese, a quattro passi dal desco e dal letto di casa.
La “disobbedienza” di cui parlava don Lorenzo Milani, infatti, riguardava proprio il servizio militare. Non solo. Il libretto “L’obbedienza non è più una virtù” prese avvio da un ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana (febbraio 1965) i quali, in un passaggio dell’ordine del giorno pubblicato dal giornale La Nazione, di Firenze, tacciavano di viltà gli obiettori di coscienza. Cioè coloro che, in quegli anni, rifiutando di indossare la divisa, accettavano come contropartita anche il carcere.
Chi scrive, a distanza di più di quarant’anni per quanto lo riguarda, ricorda nei suoi termini generali quel dibattito, perché se ne discusse in incontri e anche in assemblee con il cappellano militare del suo gruppo di artiglieria da montagna, a Vipiteno-Sterzing, specie a proposito dell’interpretazione di due articoli della nostra Costituzione da parte di componenti della Chiesa cattolica: l’articolo 1: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa…”; l’articolo 52: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio…”. Non si dimentichi, poi, che ancora in quegli anni era d’uso, durante la celebrazione eucaristica, che il picchetto armato facesse il presentat’arm all’elevazione, con tutte le conseguenze simboliche di significato dovute a tale atto.
Siamo nella metà degli anni Sessanta. Dopo una dura e polemica lettera del priore di Barbiana ai cappellani militari, e dopo una loro denuncia alla magistratura, don Lorenzo Milani in una sua autodifesa recapitata ai giudici citava en passant anche la situazione altoatesina, o sudtirolese che dir si voglia, a pochi anni dalla drammatica “notte dei fuochi” (giugno 1961), quando Bolzano stava per diventare la nostra Belfast. Insomma, la polemica – politica e teologica – era rovente.
Non entro nel merito delle questioni. Qualche tempo dopo il confronto tra cappellani, don Milani e giudici, lo Stato introdusse nel proprio ordinamento la legge del servizio civile in sostituzione del servizio militare obbligatorio (1972), che oggi poi è stato a sua volta abolito e lasciato ai volontari. Don Lorenzo Milani (febbraio 1966) fu assolto dai giudici del Tribunale di Roma da tutte le accuse attribuitegli. E purtroppo – già era malato all’epoca del processo – l’anno seguente morì.
Va ricordato, ancora, che nella sua memoria il parroco di Barbiana aveva sollevato il dissenso dalle leggi (il servizio militare in offesa – a suo giudizio – al comandamento divino non uccidere e a quello evangelico dell’amatevi gli uni con gli altri), dissenso che si sarebbe dovuto esprimere solo con la manifestazione del pensiero e, nel dibattito democratico, con il voto, ma accettando tutte le conseguenze derivate dal rifiuto della legge.
Mescolare la disobbedienza pronunciata da don Milani, grande pedagogista del Novecento, in relazione ai comandamenti di Dio e alle norme costituzionali con una nuova opposizione relativa a una legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, dopo il dibattito già avvenuto in parlamento e in Italia, è come paragonare una banana con una bicicletta. E mai credo don Milani avrebbe impartito ai suoi ragazzi di Barbiana un insegnamento del genere. Strumenti legali e democratici per opporsi a una legge considerata, più che ingiusta, sbagliata (la promozione di un referendum abrogativo, per esempio) esistono.
Offendono invece le commistioni di un dibattito alto, quello di don Milani, con uno molto, molto basso. E soprattutto le dimenticanze, volute o no, della storia. Anche di quella recente.
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