L’interesse per le amministrative sale, la quota degl’informati sulle medesime no. Sentito qualche aspirante sindaco dire: a cosa servono i nostri sforzi, quando incontriamo chi non ne dà riscontro? Però a convention e cin cin, raduni e bla-bla-bla la gente si presenta. In diverse circostanze, registrato il sold out. Ipotesi degl’intenditori: andiamo verso la composizione d’un elettorato in calo numerico (astensionismo che resiste, e forse lievita) e però in relativa crescita di cognizioni. E’ questo che farà la differenza, cioè i cittadini che sanno rispetto ai cittadini che non sanno. Vero, non vero? Il dubbio è il seguente: e se alcuni (molti, pochi, boh) decideranno last minut, sulla base di un’impressione fugace, una simpatia folgorante, un casuale passaparola, un’impennata bizzarra? Ergo: situazione da roulette.
E i programmi? Tutti i programmi che vengono puntigliosamente indicati dai concorrenti? Lodevoli, ponderati, apprezzabili. Però non conosciuti, valutati, eventualmente creduti in toto/in parte dalla moltitudine che potrebbe/dovrebbe conoscere, valutare, eventualmente credere. Dunque a contare (garantire) saranno soprattutto le persone. Le loro storie di vita, i loro meriti nella professione, le loro esperienze civiche. Civiche, sì. Altro che affermare: il civismo è un vestito di comodo. Se di taglia acconcia -bene indossato (vissuto e proposto)- rappresenta la misura massima della partecipazione. Civismo eguale politica high profile, quella che costituisce la più alta forma di carità (affermazione di Benedetto XVI nel 2008. Altre di simili e da elevati scranni, cattolici e laici, prima e dopo di lui). Ne abbiamo un po’, un po’ tanto, scordato il valore negli anni passati. Le ragioni (1) politico/etico/sociali/culturali di matrice storica sono note. La sensazione (2) di cronaca contemporanea è che si sia avvistato il cartello con la scritta “riscatto” e se ne stia seguendo la direzione.
Problema: la svolta non è stata ancora e completamente compresa come sarebbe opportuno. Motivi: superficialità, distrazione, lontananza dal bene comunitario. Rimedio: allertare l’attenzione popolare. Non con l’azzardo di mirabolanti promesse, e invece con l’umiltà della testimonianza individuale. Capire che il messaggiamento in extremis dev’essere on the road, come sentenzia l’americanismo di legno buono. Cioè: “Io sono quello che. E la mia storia vi rassicura su quello che sarò”. Così si sceglie – facciamo l’esempio di Varese – tra quattrocento candidati di sedici liste, oltre che tra sei aspiranti alla poltronissima di Palazzo Estense; si screma tra chi individua nel cimento elettorale un’occasione di ribalta e chi una chiamata di servizio; si distingue tra chi carezza la convenienza privata e chi persegue l’interesse pubblico; si differenzia tra chi salta da un carro all’altro per continuare una personale corsa al potere e chi ha dimostrato di voler/saper tirare il carro del virtuosismo appassionato, trasparente, radicale in favore di un’intera cittadinanza. Tra chi, insomma e alla fine, privilegia i fatti alle parole.
Soccorre, al proposito, la memoria d’antan. Alexander Pope, scrittore inglese vissuto tra Seicento e Settecento: “Le parole sono come le foglie: dove abbondano è raro che sotto vi si trovi molto frutto”. Facciamo attenzione a rintracciare il sentiero giusto nel bosco lessicale della propaganda, scuotendo le piante simboliche di discorsi, esortazioni, incitamenti. E osservando con attenzione ciò che rimane nella disponibilità concreta dell’oratore protagonista.
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