In cammino verso una meta di pellegrinaggio – in questo caso sulla Via Francigena – l’esperienza più esaltante è il senso di libertà, una libertà sospensiva, che si abbevera della possibilità di liberarsi dal fardello delle preoccupazioni quotidiane, dell’allontanamento, come per magia, dalle costrizioni degli impegni, tutti importanti, tutti moralmente necessari ma, in fondo, non indispensabili.
Il sapore della libertà non tiene in conto il peso dello zaino, la fatica delle ore di cammino, la lunghezza del percorso con gli inconvenienti delle mutevolezze del tempo, del freddo e della pioggia, dello scarpone troppo stretto.
Si percorre la campagna per viottoli serpeggianti tra il verde della primavera inoltrata, con l’occhio che accoglie e incorpora un luogo che mai avremmo visto con quel medesimo sguardo attraversando paesi e raccordi autostradali a bordo di un’automobile o di un pullman Gran Turismo.
Camminiamo disconnessi, liberi dal bisogno di occupare un posto importante nella grande rete dei cellulari, di essere un nodo significativo, come ci pareva prima della partenza. Ogni tanto squilla un telefono dimenticato in fondo alle tasche. Si tarda a rispondere, e spesso le musiche delle suonerie trillano a vuoto per poi tacere. Dopo, si risponderà dopo. Perché qui, in questo contesto, risulta difficile pensare di poter essere necessari a qualcuno, mentre si cammina “altrove”. E poi, non c’è tanto che si possa fare per altri da questo luogo.
Per qualche giorno si resta piacevolmente disinformati su ciò che succede nel mondo, che poi non è lontano: ecco che si ripresenta ad ogni attraversamento di centro abitato o nei tratti di strada asfaltata.
Non si comperano quotidiani, non si leggono compulsivamente notizie sui tablet, pochi, che si accendono solo la sera e per breve tempo; le poche news che circolano nel gruppo, arrivano da casa, e spesso riguardano l’affannata politica locale, con le vicende di chi è rimasto in città, che ora ci appaiono sbiadite e suonano superflue.
Ci sono i momenti di riposo: la sosta per un panino su un muretto dissestato, o una manciata di minuti per una fetta di focaccia sui gradini della chiesa in quel paese arroccato lassù, fuori da ogni circuito turistico. Tra poco pioverà, ma i ripari sono temporanei e bisogna ripartire.
Colgo una sorta di felicità nell’esserci, qui e ora: contenti di essere partiti, nonostante i legami con ciò che ci siamo lasciati alle spalle, pacificati all’idea che tra qualche giorno saremo di nuovo a casa.
Capita di parlare con l’occasionale compagno che si avvicina a noi nella fila dei pellegrini, fila che si scompone e ricompone di continuo, con un ondeggiamento che si può solo percepire ma non vedere.
Si conversa sottovoce con i vecchi amici e si fa conoscenza dei nuovi compagni di viaggio.
Se capita di rimanere indietro, c’è sempre qualcuno che ci aspetta: non si è mai soli.
Ma è il silenzio, pesante di significati, un’altra delle scoperte che ci regala il pellegrinaggio, un silenzio che si percepisce non appena il camminare si fa regolare e ritmato, dopo qualche ora dalla partenza. Durante il lungo cammino nei boschi, con i gruppi di alberi che ci sovrastano con folte pareti di foglie, stiamo attenti ad ogni curva del viottolo e al più piccolo dislivello del terreno, accompagnati da una sensazione di pienezza per il legame privilegiato che abbiamo istaurato con la natura.
Quando si riesce a tacere dentro, si ritrova un fitto dialogo tra corpo e anima: il corpo si muove nella natura mentre l’anima assume il compito di suo testimone attivo e vigile.
Nelle ore di marcia il pensiero non divaga come nelle ore del vivere quotidiano, quando ci si distrae facilmente, in treno o in automobile, mentre ci si muove da un luogo a un altro, da un “dentro” a un altro “dentro” attraversando lo spazio aperto del “fuori”, con scarsa consapevolezza dei cambiamenti che si verificano sotto i nostri occhi disattenti.
Il pensiero del pellegrino è fisso nel corpo che cammina, ne coglie i respiri e le variazioni, ma resta fortemente ancorato all’io. È sconosciuto al viandante il fenomeno neurologico dell’ipnosi vigile, il meccanismo che ci permette di spostarci senza accorgerci di farlo, su percorsi già noti, come il tratto da casa al lavoro o verso un luogo abituale. Che ci porta in automatico alla meta, quasi sempre, per fortuna nostra, salvi. Senza il ricordo di quanti semafori, di quanti viali abbiamo attraversato, immersi nelle preoccupazioni del giorno che incombe.
Nei giorni del cammino verso Roma abbiamo sperimentato anche la pazienza delle cose che persistono, che si manifestano a noi come se ci aspettassero da sempre, proprio lì, in quel posto preciso: un albero caduto tra i sassi e rimasto a terra, divenuto casa per un nuovo ecosistema, il ruscello sul fondo di una forra buia e umida, il canto articolato di uccelli che si chiamano da un punto all’altro del bosco. Elementi della natura il cui mutamento impercettibile ci dà la misura di un tempo che non è il nostro ma da cui impariamo una diversa lettura della vita.
Non è abbastanza fare dei passi che un giorno ci condurranno alla meta, ogni passo deve essere lui stesso uno meta, nello stesso momento in cui ci porta avanti. (Goethe)
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