La scelta della vita monastica nella realtà contemporanea è frutto di una “scoperta” che risale all’adolescenza. Nei primi anni Cinquanta del Novecento – dice l’abbadessa Maria Ignazia Angelini, parlando anche a nome delle sue consorelle – “scopre” in sé la fede e la percezione che il Dio di Gesù Cristo è al centro della sua vita; scoperta che si è approfondita e chiarita negli anni.
La vita monastica significava pensare l’umano femminile di fronte a Gesù, la frequentazione delle Sacre Scritture, la celebrazione viva della liturgia. Una vita fraterna semplice.
Nel monastero di Viboldone la comunità vive in povertà, di un lavoro serio (non di dote o di lavori considerati puro diversivo) e non ha mai adottato le grate per esprimere il valore “alternativo” della separazione monastica. Qui si vive una vita in semplicità e umanità.
Le monache qui hanno deciso di “non difendersi” dalla “storia di tutti gli uomini”, anzi si impegnano ad essere “monache come monaci”, sempre in ricerca di un umano femminile adulto, partecipe della complessità della storia umana e di una fede radicata nel mondo e nel suo tempo, sempre consapevoli che “credere al valore della cultura” sia costitutivo del processo di “maturazione della fede”.
L’esistenza di queste donne-monache è nel segno della distinzione e condivisione. Si distinguono in quanto comunità che si affida totalmente a Dio, condividendo nel contempo la condizione di tutti gli uomini e lo fanno nel loro essere un angolo di umanità, anche di miseria, tenuto insieme dalla ricerca di Dio (intensa e inquietante definizione di monastero).
La “ricerca di Dio” determina una condizione di parità che travalica i limiti e le divisioni di “stato”: non ci sono infatti forme superiori e forme inferiori di appartenenza a Cristo: vi è un’unica realtà di figli per grazia, un’unica chiamata a vivere da salvati in Gesù. Di proprio le monache e i monaci hanno questo di proprio: sono così attratti da questa realtà che si incantano a gustarla, a cantarla, a renderne grazie e chiamano tutti a condividere questa festa quotidiana.
La “ricerca di Dio” è risposta ad una chiamata. Nel nome della fede si agisce in sé e fuori di sé secondo logiche che non sono di questo mondo. È il caso dei voti: la verginità non annulla la corporeità, anzi ne rappresenta una nuova coscienza; la castità non impedisce di essere fecondi, perché è un modo di mettersi in relazione umana, una relazione semplice, che non strumentalizza; e la povertà è un segno di speranza per l’umanità che, tutta, attende dal Signore e Salvatore, Gesù, il proprio pieno compimento.
Castità e povertà trovano la loro piena realizzazione senza alcuna garanzia – per dir così – istituzionale, che sempre contiene l’insidia subdola della passione di possesso: di cose, di persone, di potere. Così le suore che vivono del loro lavoro (editing e restauro di libri e pergamene, soprattutto) sono minacciate dalla crisi che sta coinvolgendo tutti. Così nella loro libertà povera e casta, le monache si aprono agli altri, oltre che nel lavoro, nella accoglienza, nell’ospitalità, nella cura delle loro compagne anziane.
Il segno di chi crede e vive in Gesù si fa segno di speranza e letizia.
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