Quattro uomini di mezz’età giocano a carte su di un vecchio tavolaccio. Potremmo essere in un qualunque circolino della Valganna se non fosse che, quando allarga l’ inquadratura, la telecamera rivela un impressionante panorama di rovine e devastazione. Intorno a loro case distrutte e mucchi di detriti: i quattro giocano all’aperto, incuranti delle granate che ogni tanto esplodono in lontananza.
È una delle immagini più forti del reportage Aleppo del giornalista Gian Luca Micalessin presentato a Roma nel corso di un incontro sulla tragica situazione della città siriana, organizzato dalla rivista Atlantide.
Ospite d’onore il vicario apostolico monsignor Abou Khazen. Il francescano ha tratteggiato senza sconti il ritratto della Siria contemporanea. Cinque anni di guerra, 300mila morti, 20 mila persone scomparse, 4 milioni e 600mila rifugiati all’estero. In questo contesto c’è Aleppo, città martire, la «Sarajevo del XXI secolo». Khazen elenca le piaghe della gente: morti violente, famiglie distrutte, mancanza d’acqua ed elettricità, carovita, disoccupazione. I cristiani, spiega il vescovo, sono diventati il trait d’union nella disastrata realtà del paese.
La Chiesa si prodiga per aiutare i pochi rimasti: “Abbiamo distribuito bidoni e cisterne di plastica per attingere l’acqua ai pozzi, 250 o 500 litri per avere sempre una scorta, portiamo a casa viveri agli anziani e agli ammalati, aiutiamo le famiglie a pagare l’abbonamento ai generatori di corrente elettrica, anche per permettere ai giovani di avere luce per studiare, distribuiamo un pacco alimentare mensile a chi ne ha bisogno, cuciniamo 12 mila pasti al giorno per i più poveri, aiutiamo chi non riesce più a pagare il mutuo perché non c’è lavoro, formiamo falegnami e fabbri, perché di loro avremo bisogno per ricostruire”.
Alle tante domande il vicario risponde sempre con franchezza, senza risparmiare le critiche e spesso fornendo una lettura diversa dei fatti rispetto a quella diffusa dai media. Il regime di Assad? “Noi non amiamo le dittature, ma la Siria è forse l’unico paese musulmano ad avere un governo laico, dove tutti potevano convivere, a prescindere dalla religione”. I colloqui di pace? “La Russia ha insistito molto ed è quello che ci serve. Come dicono i cinesi, anche un viaggio di mille miglia comincia con un passo. La gente è stanca della guerra. Tutti. Più di 500 villaggi hanno chiesto ai ribelli di andarsene”. L’Isis? “Adottano una corrente radicale dell’Islam, quella wahabita. Fanno le stesse identiche cose dell’Arabia Saudita, crocifissioni incluse, ma questo non si può dire. È tabù”.
L’embargo imposto alla Siria – afferma poi rivolto all’ Unione Europea – è “…un grave errore che danneggia soprattutto la popolazione. Mancano i pezzi di ricambio per gli ospedali e le poche fabbriche funzionanti, non possiamo ricevere soldi, siamo in balia del mercato nero turco”. Così chi può fugge.
Gli chiediamo quale sia stata ad Aleppo la reazione al gesto di papa Francesco di accogliere tre famiglie di musulmani in Vaticano. “È stato molto apprezzato. Ha rafforzato la posizione dei cristiani. Ha mostrato all’ Islam l’apertura di cui siamo capaci”.
Questo è un punto della sua testimonianza che colpisce: la ormai esigua comunità siriana è cambiata. “Abbiamo perso in termini numerici, ma abbiamo guadagnato in profondità dell’esperienza. Anche i musulmani sono dovuti fuggire dai loro quartieri e sono venuti in quelli cristiani. Ora conviviamo. Ci conosciamo da vicino”. Ed è questa la grande novità entrata di scena come un effetto “collaterale”: “I musulmani hanno visto il volto caritatevole della nostra comunità. Riconoscono una diversità, un’apertura che non avevano mai incontrato prima”. Sì, perché l’aiuto è rivolto a tutti senza guardare alla fede. Come la distribuzione di pasti da parte del Jesuit Refugee Service che si avvale di volontari e benefattori cristiani e islamici. E così conclude: “Capita che, vedendo qualcuno di noi abbandonare la città, siano i musulmani a dire “Non lasciateci soli!”.
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