Di Felice Lattuada – o secondo un’altra dicitura Latuada – prete a Varese nell’ultimo decennio del XVIII secolo, quindi durante la Repubblica Cisalpina, è stato detto e scritto in diverse occasioni. Di lui hanno parlato storici locali, tra cui nell’800 un altro sacerdote, Luigi Brambilla, e altri autori noti e più vicini a noi come Leopoldo Giampaolo e Luigi Ambrosoli, ma anche personaggi e politici importanti, come il milanese Pietro Verri, presunto nonno o zio di Alessandro Manzoni.
Il Lattuada, nativo forse di Corbetta, località dell’hinterland milanese nei pressi di Magenta e di Robecco sul Naviglio, intorno al 1750 “studiò diritto presso le scuola palatine”, scrive di lui Vittorio Criscuolo nel Dizionario biografico degli italiani della Treccani, “fece pratica presso avvocati milanesi; si laureò all’Università di Pavia il 3 luglio 1777. In quell’anno divenne ‘avvocato promotore generale delle cause pie e de’ poveri della diocesi milanese’ con il compito di patrocinare anche i carcerati. Intrapresa la carriera ecclesiastica, fu prevosto di Magenta (1783-92), e poi a Varese prevosto della collegiata di San Vittore e vicario foraneo (1792-96)”. Un personaggio istruito e importante, dunque. E presto impegnato anche in politica, giacobino, orientato democraticamente e fautore della rivoluzione francese.
Ma l’opinione che manifestò di lui il Verri, che ebbe modo di conoscerlo in quei tempi convulsi nella municipalità milanese, non era molto lusinghiera: “La sua meschina figura è quella di un preticciuolo, d’un aspetto piuttosto ridicolo, mal vestito, e che pazzamente si muove; quando parla, lo fa male, e sempre col tono di catechismo… Nel fondo era un uomo da nulla, senza principi, e smanioso di far parlare di sé…”.
Altri giudizi sul Lattuada, che di sicuro fu sempre molto impegnato in politica e oltremodo fautore dell’avvento dei francesi in Italia con Napoleone, nella primavera del 1796, e dunque della Repubblica Cisalpina, sono più benevoli. Ma in ogni modo, stando a quanto si sa, egli fu un personaggio controverso. Forse almeno per il metro che usiamo noi oggi, e non tantissimo portato per la vita sacerdotale.
La Repubblica Cisalpina nel nord d’Italia, in seguito riunita con la Repubblica Cispadana e, in seguito ancora, alla caduta di Napoleone, ripiombata – ma non più come repubblica ovviamente – sotto il dominio dell’impero austro-ungarico, lasciò tracce imporranti. E i francesi almeno inizialmente furono accolti a braccia aperte, nonostante il precedente periodo non fosse poi stato così malvagio per le popolazioni. Ma, si sa, anche con la pancia piena o parzialmente satolli, si guarda sempre al meglio o a ciò che si ritenga tale. E così furono considerati l’arrivo in loco di Napoleone, gli alberi della libertà con in cima il cappello frigio piantati nelle piazze, in piazza del Duomo a Milano e anche nella principale piazza di Varese.
Più del popolino a essere interessati dalla svolta francese furono alcuni componenti del patriziato. E, eccezionalmente a quanto risulta, anche del clero. Tra quest’ultimo il nostro Felice Lattuada che si diede da fare. Anche con buoni risultati, tanto che infine, assunti alcuni incarichi amministrativi e politici di rilievo, ma pure per certe sue posizioni oltranziste, fu costretto a gettare la tonaca e lasciare la prevostura varesina.
Del Lattuada, per esempio, nel 1797, quando fu costituita la Repubblica Cisalpina sono note alcune “uscite” che con l’occhio di oggi (ma probabilmente anche con quello di ieri) lasciano abbastanza perplessi. Come un intervento a sua firma che comparve sulla Gazzetta della Lombardia e di Milano: “Se vi è qualche ragazza, la cui età non oltrepassi i venti anni, bella e di sentimenti repubblicani, e che desiderasse maritarsi, essa potrà portarsi al burò del Nava onde parlare con un cittadino che desidera una sposa senza esigerne dote di sorta. Questo è un onesto prete che… ama piuttosto superare i pregiudizi e prender moglie, che, come molti dei suoi compagni, sedurre quelle degli altri… ha 50 anni, ma è robusto e patriota energico; in una parola è il prevosto di Varese”. Vi fu chi disse che tanto grottesco entusiasmo svelato non fosse altro che una provocazione. Ma il tono e l’opportunità suscitano incredulità e lasciano ancora oggi molto da dire.
Poi, trascorrendo i mesi, anzi qualche anno, passando le esose tasse, le irrevocabili coscrizioni militari dei francesi anche questa presenza significativa cominciò a dare fastidio e un po’ a noia, tanto che in zona – nel Milanese e nel Varesotto – girava sempre più spesso questa battuta: “Liberté, egalité, fraternité… I francés in carossa e nü a pé”. Come dire, senza tema di smentite, che forse era meglio quando si stava peggio. O pressappoco uguale. Nel 1817, a cose ormai finite e magari in corso di oblio, e dopo che il fulmine di quel “securo” Napoleone s’era stancato di sempre “tener dietro al baleno”, anche il Lattuada non più prete ma a lungo inesauribilmente dedito a incarichi di natura politico-amministrativa, com’è destino di tutti rese la sua pugnace anima a Dio.
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