Sono grato a Robi Ronza che in un articolo del 29 aprile su questo giornale ha elogiato “l’ottimo nuovo Statuto di autonomia della Lombardia per molti aspetti più attuale della Costituzione italiana vigente”. Essendone stato il proponente in qualità di presidente della Commissione speciale che lo ha elaborato, questo riconoscimento di un giornalista che stimo mi ha fatto piacere.
Concordo con Robi Ronza anche su altre affermazioni: la Costituzione va assolutamente aggiornata; il referendum riguarda una materia che travalica la sorte del governo Renzi; va tenuta alta la guardia verso il centralismo istituzionale che non è la medicina per i guai italiani mentre lo è, piuttosto, “l’autonomia responsabile”. Ma la mia convergenza finisce qui. Spero di “incrociare” la penna con lui in più occasioni perché un serio confronto su questa problematica è indispensabile.
Per ora mi limito ad alcune considerazioni generali che contestano risolutamente la sua tesi secondo la quale con “questa riforma si ritorna allo statalismo e al centralismo del vecchio Regno d’Italia”. Con queste affermazioni che saltano di piè pari un lungo tratto della nostra storia repubblicana risulta difficilissimo instaurare un dialogo costruttivo. Anche il contrapporre, come fanno altri critici, la democrazia rappresentativa della Costituzione vigente alla tendenza autoritaria della riforma è fuorviante e infondato.
Va detto, ripetuto e ribadito che la parte dei principi e dei valori repubblicani resta del tutto inalterata mentre la riforma investe le Istituzioni che invecchiano come gli esseri umani. Alzi la mano chi è contento di come hanno funzionato fino ad oggi e soprattutto negli ultimi decenni dopo che si è fatto frenetico il ritmo di lavoro, di vita, dei cambiamenti della società a cui lo Stato ha il dovere di corrispondere con decisioni tempestive. Va ricordato che la scelta del sistema istituzionale 70 anni fa (dopo il ventennio fascista) era stata fortemente influenzata, in un clima di grande incertezza elettorale, dalla reciproca paura della Dc e del Pci di consegnare agli avversari un governo forte.
Di acqua sotto i ponti da allora ne è passata una quantità enorme con l’introduzione della Corte costituzionale nel 1956, delle Regioni nel 1970, del Parlamento europeo nel 1979. Tutti organismi che contribuiscono a formare, attuare e modificare le leggi rafforzando l’equilibrio complessivo del sistema. Da questi rilevanti cambiamenti discende l’opportunità di superare il doppione Camera-Senato, di lasciare solo ai deputati la fiducia al governo e gran parte delle leggi, di semplificare e accelerare il processo con cui vengono approvate. Riportare alla competenza dello Stato le grandi infrastrutture, il commercio estero, tutto il comparto dell’energia è la giusta correzione agli eccessi del cosiddetto federalismo della riforma del 2001.
Tutte Le Regioni e alcuni Comuni, in rappresentanza di tutti gli altri, potranno far valere le proprie ragioni nel Senato delle Autonomie dove si deciderà anzitutto la cornice e la sostanza di tutto ciò che li riguarda. Indispensabile, però, e la riforma lo prevede, che le Regioni più forti ed efficienti con i bilanci in regola possano chiedere più funzioni e risorse per dare un contributo fattivo allo sviluppo sociale ed economico del Paese.
Dopo 30 anni di proposte andate a vuoto abbiamo l’occasione per adeguarci ai tempi. Vi si oppone una vasto schieramento politico diviso su tutto. Non esiste alcuna possibilità che possano presentare un contro-progetto di riforma. Il No significherebbe inchiodare l’Italia all’immobilità di un sistema istituzionale che è già obsoleto e diverrebbe decrepito.
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