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Donne

CORREVO PER L’UNIVERSO

LUISA NEGRI - 06/05/2016

Villa Toeplitz

Villa Toeplitz

Nota in Polonia come attrice di teatro, Edvige Mrozowska (1880-1966) dopo il matrimonio con il banchiere Giuseppe Toeplitz visse lungamente nella villa di S. Ambrogio Olona, dove si stabilì durante la seconda guerra mondiale. Alternò alle permanenze in terra varesina lunghi viaggi avventurosi che la condussero per il mondo, specie nell’amato Oriente. Raccontò poi le sue esperienze in libri e conferenze. 

Qui a Varese si respirano giorni di luce. Forse è la tranquillità di questa città di provincia a restituirmi la serenità o forse è l’arrivo di dicembre a portare un’apparente fase di quiete. Stamattina mi sono ritrovata in strada prima del solito. L’autista mi ha lasciata nel centro ch’erano da poco passate le nove e già le vie erano inondate di sole. L’aria era fredda, ma ho sentito volentieri lo stimolo frizzante di un inverno che finora ci è stato clemente. Se a Milano, come nel resto del mondo, non ci fosse la guerra, si vivrebbe il clima eccitato che investe la città nel mese di dicembre: per Sant’Ambrogio c’è l’inaugurazione della Scala e i milanesi in vista si fanno in quattro nel mettersi in mostra e fare sfoggio di eleganza. Ma di questi tempi è già un miracolo se il tempio della lirica è ancora in piedi.

L’euforia del capoluogo, con le luci e i profumi natalizi di una volta, comunque non mi manca. Se non fosse che il motivo della mia permanenza qui è la guerra, direi che sono contenta di essermi lasciata Milano alle spalle. Perché nella quiete di queste colline ho più tempo per guardare dentro e dietro di me.

Sono polacca, sono nata a Janowice, nella provincia di Kielce, e conosco il fascino malinconico della campagna innevata. Per questo amo l’inverno, anzi lo cerco. Ma lo amo di più ora che il mondo è impazzito e la guerra ci costringe tutti, donne, bambini, vecchi, a starcene in casa. Dal freddo dell’inverno ti pare ti poterti riparare solo nella tua casa, con quei piccoli mezzi e sotterfugi che ogni famiglia conosce, e così mentre sfuggi al freddo sfuggi anche alla paura delle sirene e dei bengala che illuminano la notte, dimentichi il sentore di morte che la guerra ti rimanda per le strade e per l’aria.

Ho girato il mondo, l’ho fatto per lavoro –quando danzavo e recitavo- ma l’ho fatto soprattutto quando ho lasciato l’attività artistica, per curiosità. Se Dio me lo concederà, finché ne avrò le forze, continuerò a esplorare la terra, così come di notte mi piace esplorare il cielo e spiare le galassie con il telescopio dalla torretta della villa. Ma ora mi tocca di rinchiudermi nella mia casa, che prima era casa di vacanza e adesso è rifugio di guerra. A Milano non si vive più, e gli sfollati non si contano. Qui mi sento protetta dai pericoli e contemporaneamente quasi al riparo dalla vita, in una fase di osservazione di me stessa. Sono insomma insieme osservante e oggetto di osservazione, esploratrice della mia anima e territorio della mia esplorazione. Credo che nella esistenza di una persona, di qualunque persona, presto o tardi arrivi il momento di fermarsi e interrogarsi. Le circostanze hanno voluto che questo passaggio della mia vita dovesse coincidere con tempi tanto tristi, o forse è proprio perché il mondo sta impazzendo che non si può non porsi tanti interrogativi: i perché della sopravvivenza e del senso del nostro essere qui, ma anche le domande sulle nostre scelte e sull’armonia della quotidianità. Come accade a un musicista, che a un certo punto non può non interrogarsi sulla sua musica: se sia musica divina o non piuttosto musica del diavolo, dove le stonature sono camuffate dalle sonorità. Per anni sono stata ballerina e attrice, poi sono diventata la moglie di un importante banchiere, di un uomo potente. Come moglie di Giuseppe Toeplitz ho recitato per bene la mia impegnativa parte. Ho imparato subito a ricevere con garbo, a conversare amabilmente –il nostro salotto milanese di via Telesio era frequentato dai nomi più noti-, a dire la parola giusta al momento giusto. Mi sono esercitata a contenere le passioni da palcoscenico e gli acuti della voce, a camminare senza far rumore, non un passo in più, mi dicevo, come sul parquet. Ma mi mancava quel rumore di passi sul legno, anche il banchiere mio marito se n’era accorto. La nostra assiduità alle serate in teatro dipendeva dal mio desiderio di sentirmi ancora in qualche modo vicina allo spettacolo e dalla sua accondiscendenza verso questa mia necessità. Toeplitz mi ha amata e fortemente voluta come seconda compagna della sua vita. L’avevo sedotto, da quel palco che ho poi dovuto abbandonare per la cagionevole salute, con il mio fisico minuto e la mia voce melodiosa. La vedovanza e la paternità, ma soprattutto la sua maturità di uomo, l’hanno spinto a cercarmi in moglie con molta più energia dei miei precedenti, giovani spasimanti. Ero vedova anch’io, di un ufficiale austriaco.

C’incontrammo di nuovo in Italia, dov’ero venuta per rinvigorire il mio fisico gracile, e dove mi trovai coinvolta, a causa di un’accusa grave e ingiusta, in una difficile vicenda. Toeplitz mi offrì amore, solidarietà e protezione, chiedendomi in moglie.

Io ho cercato da subito di adattare la mia vita a quella di mio marito e credo di aver saputo corrispondere alla sua esigenza di avere vicino la compagna giusta, in grado di sostenerlo nella vita privata e pubblica.

Ma non è stato facile entrare nel ruolo di madre di un figlio non mio. E non so quanto Ludovico sia riuscito ad amarmi, essendo io la donna che aveva preso il posto di sua madre. Certo è che l’ho sorpreso spesso in pause pensose, la mia intimità col padre lo infastidiva. E coglievo lampi di ironia nei suoi occhi se la mia pronuncia italiana non era perfetta, avvertivo la sua ostilità quando non volevo assecondarne i capricci di ragazzo. A volte la sua ironia cercava conferme nel padre, e mi pareva che la loro complicità mi escludesse da una parte di esistenza nella quale non ero mai entrata e di cui non volevano e non potevano rivelarmi nulla.

Nel tempo gli impegni crescenti di mio marito lo costrinsero a dedicarmi sempre meno ore. Era un conto che avevo fatto. Ma i suoi ritardi sono sempre stati ampiamente accettabili e compatibili con la sua importante posizione, con le responsabilità di una gestione che risentiva di un momento storico e politico difficile. Abbiamo cercato una convivenza discreta, rispettosa e non limitante delle nostre forti personalità. Io mi sono ritagliata spazi nuovi, quegli spazi di esploratrice che contavo di poter allargare giorno dopo giorno. Ho grande curiosità del mondo, la voglia di muovermi da paese a paese mi era forse rimasta fin dai tempi degli studi, quando avevo lasciato la mia terra per la Francia per studiare recitazione alla Sorbona, e ancora di più dopo che il mio lavoro di attrice mi aveva portata a scorrazzare per la Polonia e per l’Europa –da Leopoli a Cracovia, da Kiev a Wilno, a Smolensk- e ogni giorno e ogni sera erano nuove avventure, nuove amicizie, nuove emozioni. Uscivo dai panni di Desdemona o di Eleonora, dimenticavo Shakespeare e Ibsen, Show e D’Annunzio, e recuperavo la mia identità attingendo ai racconti dei miei sempre nuovi interlocutori.

A Milano mi capitava spesso di ripensare ai miei vagabondaggi d’artista. E provavo grande nostalgia del passato e una voglia infinita di ricominciare a viaggiare. Consultavo spesso l’atlante, mi perdevo a immaginare di essere in un certo paese, nei deserti dell’Africa o nel Tibet, o sull’Himalaya. Mi figuravo ogni volta sotto un cielo nuovo, là dove le stelle sembrano toccare la curvatura della terra, com’era in qualche fondale di teatro. Mio marito capì e mi aiutò a organizzare i miei viaggi in quei lontani paesi, dove poche viaggiatrici, o forse nessuna prima di me, avevano messo piede. Le sue importanti relazioni politiche mi garantivano sostegno e accoglienza anche nei luoghi più impervi. Divenni quasi un’ambasciatrice d’Italia, stimata da tutti. Mi pare che la prospettiva di mandarmi lontana convenisse anche a lui, e io lo ringraziavo dentro di me e gli davo ragione. Avevamo tutti e due bisogno dei nostri spazi, delle nostre attività, di assecondare le nostre esigenze. E credo che suo figlio fosse contento all’idea che gli lasciassi il padre tutto per sé, per lunghi periodi.

Al mio rientro mi ritrovavo ad amare con un piacere nuovo le persone e ad apprezzare maggiormente la bellezza e le comodità della dimora di vacanza che mio marito ed io avevamo progettato insieme a Sant’Ambrogio Olona, in terra varesina.

La riempivo con souvenir dei paesi visitati –argenterie, strumenti musicali, sculture e soprammobili bizzarri- e m’ispiravo ai miei viaggi per ricreare in casa e nel parco della villa certe atmosfere esotiche che tanto mi avevano avvinto. L’oggetto che ancora oggi mi è più caro è una statua di Budda, ricordo di una visita in India. Sotto il piedestallo, in lettere d’oro, è scritto: “Nessuna cosa vale la pena”.

Nel Kashmir m’ero innamorata dei giardini dell’imperatore mongolo Babar, il “padre dei giardini”. Ricordandomi le suggestioni ricevutene, cercai di riproporne nel parco di Sant’Ambrogio alcuni curiosi effetti, bastati sulle inconsuete architetture che avevo visto là, su giochi di luce e di acqua dai riflessi cangianti.

Mi dedicai con grande passione anche alla coltivazione delle piante da frutto. Raccogliere e tenere nelle mani i frutti degli alberi che io stessa avevo piantato mi dava un senso di appagamento che mi spingeva a incrementare sempre più la coltivazione e a moltiplicarne le cure. Mi capitava anche di alzarmi la notte per proteggere il frutteto contro le improvvise intemperie dell’estate, e lottavo contro le malattie e i parassiti che minacciavano le piante, quasi la loro difesa riguardasse la mia stessa vita o quella delle persone che mi erano care.

Col passare degli anni imparai a scoprire il piacere di scrivere per raccontare le terre che visitavo. Soprattutto intuivo che la scrittura poteva aiutarmi a smascherare quelle dissonanze che anche nella mia vita erano state nascoste dalle false armoniosità e che nel mio peregrinare per diletto avevo iniziato a rivelare a me stessa, attraverso la conoscenza delle filosofie orientali. Durante uno dei miei più lunghi viaggi vissi per tre mesi nella cella, scavata nella roccia, di un monastero tibetano. Fu un’esperienza indimenticabile, che mi diede una nuova visione della vita e dell’universo, e mi proiettò in una dimensione diversa: gli affanni e le preoccupazioni d’ogni giorno mi apparivano lontani, come in una lente rovesciata, e le piccole cose della vita, le gocce della poesia e della felicità quotidiana, quelle che non vediamo mai, giganteggiavano e risplendevano davanti ai miei occhi, ricolme di una luce abbagliante.

Ora il mio territorio è questo della piccola Varese, dove riposa Giuseppe Toeplitz. Sarà qui anche il mio definitivo porto. La gente mi conosce, mi saluta con gentilezza. Ogni giorno mi faccio accompagnare con l’auto nel centro, per sbrigare le incombenze che mi toccano per la gestione della casa e per provvedere alla mia vita.

Spesso entro nella banca ch’era di mio marito, nel palazzo che ospita la Commerciale. Gli impiegati mostrano tutti grande deferenza per me. C’è una giovane che mi ispira simpatia. Ha grandi occhi verdi e una bella treccia scura attorno al capo. Mi piace di lei quel garbo signorile, che va aldilà della comune cortesia. Porta il grembiule nero con eleganza, ha mani piccole e aggraziate, com’è tutta la sua persona. Da qualche tempo un’ombra di malinconia sembra turbare la predisposizione alla serenità che fa parte del suo carattere. So che ha patito un grave lutto e ho l’impressione che dietro l’apparente compostezza resistano preoccupazioni e problemi. Ma la quieta fermezza dei suoi occhi mi vieta di indagare.

Avverto imbarazzo, davanti a lei e a tutti gli altri suoi colleghi, del mio privilegio di sfollata benestante.

Questa mattina ho voluto comunque fare gli auguri di Natale a tutti. Mi sembrano importanti, in momenti così difficili, anche i minimi gesti. Alla gentile impiegata dagli occhi verdi ho regalato due saponette alla violetta. Le ha prese con le sue mani piccole, mani leggere, mi è parso, come colombe.

Poco dopo mezzogiorno ero di nuovo a casa. Ho pranzato sola, come quasi sempre ormai, da quando, sei anni fa, è mancato mio marito. La sua morte mi ha privato della sua intelligente presenza e del suo affetto generoso. Ma non mi lamento. Alla morte non ci si può opporre. E la mia vita è stata piena di sole.

Avrebbe potuto esserlo fino all’ultimo respiro, se non fosse stata offuscata dalla barbarie della storia. Io sto vivendo questa guerra qui in Italia, in solitudine. Il diluvio di sangue non mi ha soffocato, ma mi sta soffocando l’uragano senza pietà, disumano, feroce, che con rovine immani ha investito la mia patria, ha sconvolto la ragione umana e ha suscitato echi di torture e di atrocità perpetrare su milioni di esseri umani. Tutto il genere umano ne è scosso e ciò che è avvenuto e sta ancora avvenendo è foriero forse, Dio non voglia, di altre distruzioni. Forse ne uscirà una nuova umanità, un mondo diverso, degno di nuova luce e calore.

Dove, intanto posso cercare conforto?

Forse solo nel pensiero che i miei cari sono morti prima del 1938, senza vedere, per fortuna loro, i forni crematori e la barbarie…

O forse nel cielo. La luce di oggi è di un nitore consolante. Stasera mi metterò al telescopio. Anche da questa piccola città, nonostante la guerra, posso correre per l’universo. E il cielo di dicembre è il più adatto alle scorribande notturne.

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