Molti italiani, soldati in fuga dall’esercito in rotta, dissidenti politici, ebrei, esuli per i più svariati motivi, devono la loro salvezza all’aiuto ricevuto dai vicini ticinesi nei mesi, diciotto, che vanno dall’8 settembre del ‘43 al 25 aprile del ’45. A dimostrazione del fatto che la solidarietà, l’amicizia, il sostegno, possono attraversare la rete confinale, messa da ogni nazione a salvaguardia dei propri confini, la famosa “ramina”, secondo la variante ticinese della nostra lingua. A smentita perenne dell’ansia di erigere muri, sempre più alti, sempre più robusti, sempre più lunghi, che possano illusoriamente fermare le “invasioni” degli stranieri.
Due ticinesi di Stabio, Guido Codoni e Marco Della Casa, raggiunta l’agognata pensione, hanno dedicato mesi di lavoro alla ricerca di documenti e testimonianze sul ruolo giocato dal Canton Ticino nell’accogliere i nostri nonni e i nostri padri in fuga dalla guerra, dal fascismo, dall’occupazione nazista. Le loro fatiche sono raccolte nel volume “Il Gaggiolo sulla via della salvezza”.
La parola d’ordine del libro, condivisa dal Comune di Stabio che ha scelto di pubblicare la loro ricerca, è stata: preservare la memoria storica. Sul tema, nei decenni del dopoguerra, erano stati prodotti interessanti contributi ma gli attuali curatori hanno visitato ogni paese del loro circondario, alla ricerca, e poi all’organizzazione, di ricordi, fotografie, lettere, documenti, materiali ancora esistenti nelle abitazioni dei testimoni di quei tempi. Prima che la memoria si offuschi, prima che la naturale conclusione dell’umana esistenza porti via per sempre i protagonisti di allora.
Commoventi le testimonianze sugli eroismi quotidiani di alcuni sacerdoti dei paesi confinanti del Varesotto e del Comasco che rischiavano la vita per far pervenire la corrispondenza di chi, internato, aveva necessità di comunicare con i propri cari rimasti in Italia. Nei racconti dei vecchi alcune vicende colpiscono in modo particolare noi, i nati dopo la guerra. Fortunati e inconsapevoli delle paure degli anni terribili della guerra, ascoltiamo le loro parole e proviamo a immaginare il cielo lombardo illuminato a giorno dai bombardamenti sulle nostre città, come se lo potessimo vedere con gli occhi terrorizzati degli abitanti del basso Mendrisiotto, assembrati sulle colline che degradano verso il confine italiano. Il libro di Codoni e Della Casa ha aperto uno squarcio nella nostra memoria collettiva. Che è e resta ancora fragile, troppo incline a resettare il ricordo dei forti legami esistenti fra le comunità italiane e svizzere a cavallo del confine. La frontiera, che ci ha sempre divisi a livello istituzionale, non è mai riuscita a cancellare la nostra vicinanza culturale né ad intaccare la condivisione di esperienze storiche, seppur vissute da prospettive differenti.
Lo scrittore Alberto Vigevani, che giunse in Svizzera come profugo entrando dal vicino valico di Arogno, nel suo romanzo autobiografico “Compagni di settembre”, pubblicato a Lugano nel 1944, racconta: “Al culmine del bosco uscimmo in un breve altopiano. Aldilà si innalzava un fianco del monte Generoso e veniva la Svizzera. Non ci passò nemmeno per il capo che là la guerra non si sapeva cosa fosse e la gente dormiva nel proprio letto ogni notte dell’anno”.
Certo, in Svizzera si stava meglio: ma la piccola nazione era accerchiata e la guerra influenzava pesantemente le condizioni di vita. Le frontiere erano chiuse e sorvegliate dall’esercito, ma non si moriva di fame. La Svizzera era riuscita a preservare la propria democrazia, unica isola di libertà nell’Europa oppressa dalle dittature nazifasciste e dalle occupazioni militari.
Settant’anni fa il Ticino si distinse per il grande slancio umanitario. Fece la propria, grande parte, assumendo un ruolo di primo piano come crocevia della Resistenza europea e come punto di contatto con gli Alleati. Accolse molti antifascisti che poterono diffondere le idee di libertà tramite la biblioteca cantonale, la radio della Svizzera italiana e i tanti giornali, espressione delle varie aree di pensiero, distribuiti clandestinamente anche oltreconfine. Cittadini di ogni estrazione sociale fornirono ogni genere di aiuto, spesso sfidando le leggi federali con una generosità che fu rafforzata dall’attivismo politico di aree cattoliche e socialiste locali.
La popolazione ticinese, consapevole di essere scampata agli orrori della guerra, si sentiva moralmente in dovere di accogliere le persone in fuga. Chi abitava a ridosso del confine ricorda ancora oggi l’entrata massiccia di soldati italiani dopo l’armistizio e l’arrivo dei profughi ebrei, alcuni dei quali si toglievano la vita se ricacciati indietro. La fiumana dei profughi raggiunse le 45.000 unità: un numero enorme pensando che oggi l’intero Ticino conta 350.000 abitanti.
Dal lontano 25 aprile 1945, su entrambi i lati del confine, fortunatamente, nessuno ha più conosciuto il fantasma della guerra.
Oggi noi viviamo in una Europa di pace. Ma siamo spesso insensibili ai bisogni altrui e incapaci di accogliere degnamente le molte persone che fuggono dalla miseria e da conflitti lontani ma non meno atroci. L’esempio della Svizzera, e della sua misericordia, dovrebbe, potrebbe, ricordarci che la storia non deve ripetersi e che essere solidali e accoglienti, come i nostri vicini di confine, è possibile.
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