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Storia

ALTARE E POLVERE

MANIGLIO BOTTI - 06/05/2016

napoleone“Stamani, dalle sei e mezzo in poi, ho sentito battere a raccolta nelle strade… Si sente che tutta quanta Parigi s’è riversata in una sola parte della città come un liquido in un vaso che s’inclina… Quando arrivo al ponte Luigi Filippo, un nembo s’abbassa e alcuni fiocchi di neve sospinti dalla tramontana vengono a sferzarmi il viso. Passando vicino a Notre-Dame osservo che la campana non suona…”. Sono le parole iniziali del magistrale reportage che il 15 dicembre 1840 Victor Hugo, uno dei più famosi letterati di Francia, scrisse per i funerali di un altro grande francese: Napoleone Bonaparte, diciannove anni dopo la scomparsa. La festa di un feretro esiliato – scriveva ancora Hugo – che tornava in trionfo per la tumulazione della salma a Les Invalides. Qualcuno racconta che la balaustra aperta nel mausoleo napoleonico, in alto, fu realizzata apposta di modo che per guardare il sepolcro i visitatori dovessero inchinare sempre il capo.

Oggi che sono trascorsi 195 anni dalla morte di Napoleone a Sant’Elena – 5 maggio 1821 – scatta una ricorrenza utile per fare sì che si rifletta ancora su un uomo, un grande della storia – comunque la si guardi – che tanto condizionò gli eventi a cavallo del XVIII secolo con il XIX. Non solo per le sue vicende terrene che, appunto, già duecento anni fa bene sintetizzò Alessandro Manzoni nell’ode che si usava mandare a memoria da ragazzi alle scuole elementari: “Fu vera gloria? Ai posteri / L’ardua sentenza… / Tutto ei provò: la gloria / maggior dopo il periglio, / la fuga e la vittoria, / la reggia e il tristo esilio: / due volte nella polvere, / due volte sull’altar…”. Vicende che si potrebbero assimilare, forse, a fortune e a sfortune che nella vita possono innalzare e travolgere chiunque. Ma eventi importanti anche per il “significato collettivo” che tali vicende comportarono in ogni parte dell’Europa.

Si dice che su Napoleone siano stati scritti così tanti libri da riempire intere biblioteche. Quasi quanti ne sono stati scritti – ci si perdoni il paragone – su Gesù. È possibile, perché in effetti – in un certo momento della storia – Gesù rappresentò l’uomo incarnatosi nel Dio vivente. E Napoleone, mille e ottocento anni più tardi, impersonava la quintessenza della laicità, il diritto e la giustizia, per molti uomini gli aneliti di libertà. La guerra, la vittoria e la sconfitta, la caducità della vita…

Ed è anche possibile che se si dovesse giudicare oggi, cioè con i criteri nostri di uomini cresciuti – che stiamo crescendo – in Occidente a pane e computer, la responsabilità e la presenza di Napoleone nella storia non possano essere considerate del tutto positive. Specie per l’atteggiamento che il generale Napoleone ebbe nei confronti della vita, la sua e dei suoi soldati, caduti sui campi di battaglia a centinaia di migliaia. E per fare sì, infine, che le cose rimanessero – avrebbe detto un secolo più tardi Tomasi di Lampedusa – tali e quali. Tutto doveva cambiare perché niente cambiasse.

Ma è anche evidente che questo modo di vedere il passato porterebbe a un grave errore di comprensione, e non renderebbe giustizia non soltanto a Napoleone Bonaparte, ma a tutti coloro che sono vissuti prima di noi. E che, ancora oggi, forse vi sono in qualche parte della Terra, perché il mondo gira ma non ancora per tutti allo stesso modo.

La vicenda di Napoleone è importante per le guerre, per le battaglie, vinte e perdute; dunque, per i significati ”politici” e storici che ne derivarono. E – se si vuole – c’è ancora un’analisi più semplice da fare. Cioè su come certi accadimenti minimali abbiano spesso la forza di cambiare il corso degli eventi. Un colpo di vento, una giornata di pioggia, un innamoramento… Anche un equivoco (memorabile quello che forse indusse il maresciallo Pierre Ney a Waterloo ad arrivare in ritardo nel soccorso al suo generale, se ciò non fosse accaduto è possibile che la storia degli anni venire dopo quell’ultima e decisiva battaglia sarebbe stata diversa). Sta anche in questo aspetto, privo di un qualsiasi giudizio, a fare “grande” una vicenda umana, dietro la quale c’è sempre un imponderabile destino (o per dirla col Manzoni un disegno della Provvidenza?). Forse anch’esso incasellato in una logica. Ma è l’interrogativo di sempre.

E anche in questo caso, la domanda che Alessandro Manzoni pose a sé stesso e ai lettori nella sua ode – Fu vera gloria? – resta valida. Non ci resta, anche a noi, che concludere come fece Don Lisander: “Ai posteri l’ardua sentenza”.

 

 

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