“Ci vediamo al piantone o ti vengo a prendere al piantone: sono frasi che tutti i varesini hanno pronunciato almeno una volta. Il piantone – scientificamente un Cedrus libani subspecie atlantica – è da sempre il punto di riferimento dei varesini; insomma il piantone è l’albero per antonomasia di Varese, quello più citato,riprodotto, fotografato ed amato “. Così scrissi nel mio libro Alberi&Varese ad evidenziare lo stretto legame che unisce ai varesini questa pianta radicata – non si sa come – su di un trafficato incrocio cittadino; il patriarca è di certo il simbolo più conosciuto della “Città Giardino” ; tutti lo amano e tutti lo vorrebbero proteggere e tutelare. Concludevo poi così il mio capitolo dedicato al piantone: ” Il Cedro, seppur con qualche acciacco, è ancora ben vitale. Perché ? Pochi metri al di sotto dell’albero scorre un ramo canalizzato del torrente Vellone e forse l’abbondanza di acqua è la ragione che ne ha permesso e ne permette uno sviluppo così vigoroso e possente. Il Cedro è l’ultima vestigia di un verde passeggio quale era Via Veratti, un ricordo di ciò che fu e che non abbiamo saputo conservare e tramandare; ma è anche una testimonianza vivente di come la Natura possa adattarsi alle più difficili condizioni ambientali. Forse è per questo che tanto l’ amiamo: in fondo ci sembra impossibile che possa vivere lì, così massiccio e vigoroso, immutabile testimone non solo della nostra storia e vita quotidiana, ma anche della forza e della possenza della Natura “
Scrissi queste parole nel 2010; l’albero aveva già qualche acciacco; fatto normale: ci mancherebbe altro che un vecchietto siffatto, di oltre 150 anni di età, fosse perfettamente integro, senza difetti o anomalie!
Era però curato, studiato e coccolato. Nulla era lasciato al caso; la sua stabilità era costantemente monitorata con i più sofisticati mezzi a disposizione, il secco regolarmente asportato, i rami pericolosi accorciati e consolidati, periodicamente veniva somministrata acqua, ossigeno e alimenti. Insomma era curato e sorvegliato; il tutto a titolo non oneroso per la cittadinanza e le casse comunali. L’albero era stato in poche parole adottato.
Certo di affronti ne aveva subiti tanti nel corso della sua lunga vita – era stato messo lì probabilmente attorno al 1870 da Giulio Adamoli, garibaldino e Senatore del Regno – : canalizzazione del Vellone che scorreva a cielo aperto lì vicino, ampliamento della via Veratti negli anni Venti; rifacimenti dei manti stradali, fognature negli anni ottanta, recentemente impermeabilizzazione del suolo per realizzare un dehors a pochi metri dalle sue radici; al di là delle ferite inflitte alle radici, l’albero non ha più spazio dove assorbire l’acqua. E poi ancora traffico, inquinamento, bambini ed adulti maleducati che giocano, scavano e sporcano le radici affioranti.
Insomma di tutto e di più; ma per uccidere un albero ce ne vuole; lo si può indebolire, come è stato fatto, ma non ucciderlo. Molti pensano che le piante monumentali, per il semplice fatto di essere così massive ed imponenti, possano sopportare tutto. E talvolta lo riescono a fare per decenni o secoli, ma anziché vivere, sopravvivono e questo i patogeni, opportunisti, lo sanno e anche bene ! Del deperimento dell’albero non può certo essere incolpato un malefico e subdolo fungo come qualche “esperto dottore dulcamara “ afferma o qualche politico, che si inventa agronomo, cerca di veicolare mettendosi a posto la coscienza e il proprio operato. La malattia rende l’uomo professore ed è molto semplice incolpare qualcuno – un fungo microscopico – della morte di un colosso vegetale come il piantone.
Non è qui la sede per entrare nel merito tecnico dettagliato delle cause che hanno portato all’evidente stato di sofferenza l’albero. Sarebbe troppo lungo e complicato. Lo farò nei tempi e nei luoghi più idonei. Nessuno dei varesini non può che avere a cuore la sorte di questo simbolo della città. Tutti vi sono affezionati; la ventilata sua rimozione ha scatenato i siti internet e i mass media; perfino gli assessori hanno minacciato di incatenarsi alla pianta per evitarne la rimozione. Forse però qualche leggerezza è stata compiuta; forse qualcuno in questi due anni e mezzo di abbandono avrebbe potuto e dovuto fare qualcosa. Il degrado è stato repentino: dalle foto scattare due anni fa la situazione era notevolmente migliore. I carpofori del fungo erano già presenti ed evidenti, ma la chioma era decisamente più folta e vigorosa.
Il piantone così ridotto ed abbandonato è un po’ il simbolo, la metafora del declino Varese.
Città un tempo rigogliosa, la “Città Giardino” per antonomasia, con castellanze e rioni vivi e solidali così come lo erano tra loro i rami dell’allora sano e annoso albero; con radici possenti, ben affondate nell’humus del territorio e capaci di assorbire e trattenere. Radici profonde che non gelano mai come direbbe Tolkien; anche la città aveva radici profonde fatte di pragmatismo bosino, di vita culturale, di solidarietà e accoglienza, di turismo d’eccellenza, di storia patriottica,di tradizioni sportive,industriali e commerciali.
Oggi la chioma del piantone è lasciata colpevolmente in declino; anche i nostri rioni, come i rami, sono morti, privi di vita con botteghe e centri sociali di aggregazione chiusi o vuoti, abbandonati a sé stessi.
Dove prima i varesini si davano appuntamento all’ombra e al riparo delle possenti fronde ora il sole entra di prepotenza rinsecchendo e inaridendo il poco suolo lasciato colpevolmente a disposizione; il verde sui nostri colli si sta sempre più assottigliando; le radici non possono più assorbire l’acqua e la pianta muore soffocata di sete così come la città, privata della sua cultura e delle sue identità, soffoca e s’imbruttisce non sapendo più quale destino o funzione potrà avere.
Insomma l’albero muore come sta morendo questa città. Ma in questa metafora c’ è una speranza: una vita nuova che potrà svilupparsi e rifiorire, non in uno,ma in cento nuove vite.
Ecco la mia idea di cui rivendico la paternità e non voglio che venga, come spesso è accaduto, scopiazzata ed imitata in malo modo: da una vita vegetale che muore ne potranno nascere decine e centinaia nuove; dunque preleviamo i rami ancora vigorosi laterali e riproduciamoli per innesto.
Avremo decine, centinaia di nuovi futuri piantoni, con lo stesso corredo genetico della pianta madre, con cui far rifiorire il nostro territorio. Il nostro amato piantone continuerà così a vivere e a perpetuarsi per i nostri figli e nipoti. Sarà questa anche la metafora della rinascita di una città che solo cambiando e rinnovandosi, ma veramente, potrà ritrovare lo spirito che la resero unica così come lo è il nostro amato piantone.
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