Secondo l’edizione 2012 dell’Index of Economic Freedom (Indice della libertà economica) pubblicato negli Stati Uniti dalla Heritage Foundation in collaborazione con il Wall Street Journal, l’Italia è quest’anno al 92° posto con una perdita di cinque posizioni rispetto al 2011 mentre per parte sua la Svizzera è al 5° posto. Nella classifica dei Paesi europei l’Italia è poi 36a su 43. Stiamo parlando, giova precisarlo, di un indice composto dei seguenti indicatori: legalità; impatto dello Stato sulla vita e l’attività dei cittadini; efficacia delle norme stabilite con riguardo al funzionamento dei mercati; apertura dei mercati. Si aggiunga poi che in Italia la pressione fiscale in percentuale del prodotto interno lordo si avvicina ormai al 50 per cento mentre in Svizzera viene valutata secondo i diversi criteri di calcolo tra un minimo del 29.4 e un massimo del 30,3 per cento.
Tutto quello che sta accadendo in Italia in questi giorni si può capire solo se viene posto sullo sfondo dei dati di cui sopra. L’Italia avrebbe bisogno dello shock di una grande riforma organica intesa a liberalizzare in tutta la misura del possibile l’economia privata nel suo insieme avviando la riforma dell’amministrazione centrale dello Stato, che è una voragine di sprechi e di inefficienze; e di aprire innanzitutto il mercato dei comparti realmente significativi, dalle assicurazioni auto ai carburanti, dall’energia elettrica alle ferrovie, alle poste eccetera. Con tutto il consenso interno e internazionale di cui gode, e con il sostegno che bene o male tutti i grandi partiti si sono impegnati a dargli sulla carta, l’attuale governo sarebbe l’unico in grado di dare all’economia italiana questo benefico shock. Questo però è possibile solo se si mette mano in un colpo a una grande riforma organica che incida su tutte le rendite di posizione che permangono in Italia a partire appunto dai grandi settori, quelli davvero incidenti e significativi di cui più sopra si diceva; e che, grazie a un suo bilanciato insieme di vantaggi e svantaggi, diventi accettabile per tutti o quasi.
Invece, adottando un criterio che può forse valere in un’azienda ma non in un Paese, il governo Monti prende sotto tiro le singole categorie ad una ad una per di più partendo da quelle — come i tassisti, i farmacisti, i notai – che o sono titolari di singole rendite di posizione relativamente modeste (rispetto ad esempio a quelle delle compagnie assicurazione e delle società petrolifere) e che poco incidono sui bilanci correnti delle famiglie, oppure sono numerose e dotate di una grande capacità di mobilitazione molto “visibile” come appunto i tassisti. E per di più non si tratta di vere liberalizzazioni ma di nuove regole entro mercati che restano ultra regolamentati. Facciamo il caso delle farmacie: non si elimina il loro rapporto fisso con il numero di abitanti del territorio che servono ma lo si riduce da 4 mila a 3 mila. Analogamente nel caso dei tassisti si tende semplicemente a calmierare il mercato delle licenze di taxi (che in Italia sono vendibili e anzi di regola vengono comprate e vendute) rilasciando un numero rilevante di nuove licenze. Anche qui però – merita di osservare – non si apre il mercato ma semplicemente si tenta di ampliarlo un po’ lasciandolo però sempre chiuso entro un regime di licenze.
Per quanto concerne poi i blocchi stradali degli autotrenisti il governo di Roma farebbe bene a non sottovalutarne la valenza profonda e a non illudersi che si possano risolvere solo con provvedimenti di polizia.
Si tratta in effetti di una vera e propria rivolta contro l’eccesso di pressione fiscale su un prodotto oggi di prima necessità come i carburanti: una rivolta che potrebbe anche estendersi ad altre categorie. Il nocciolo della questione sta nella spropositata pressione fiscale sui carburanti con un’imposta di fabbricazione che, essendo correlata al costo industriale, aumenta in proporzione di quest’ultimo. È in sostanza per questo che, malgrado l’attuale alto corso del franco, con legittimo vantaggio dei benzinai ticinesi e grigionesi di frontiera la benzina verde costa attualmente in Svizzera 1,4 euro quando in Italia ne costa 1,7. Oltre l’80 per cento del prezzo alla pompa dei carburanti in Italia è costituito da imposte. Inoltre tale prezzo è mediamente più alto nel Sud, e in particolare in Sicilia da dove perciò non a caso è partita la protesta dei camionisti.
Così facendo insomma, nella speranza di risultati di scarso peso strutturale, il governo Monti sta logorando la propria principale risorsa, ossia il grande consenso di cui per uno strano insieme di ragioni godeva quando entrò in carica. Frattanto si continua a restare in attesa dell’ormai mitica “fase 2”, quella cioè del sempre annunciato piano di rilancio dell’economia. Se anche infatti per magia il governo vincesse la sua battaglia contro i tassisti e i camionisti è difficile credere che ciò si risolverebbe in un potente stimolo per l’economia italiana, che avrebbe invece più di tutti bisogno di una rapida riduzione dei prezzi di beni fondamentali, come appunto i carburanti, l’energia ecc. e di un rilancio dei consumi stimolato riducendo o eliminando la tassazione sui redditi più bassi. Facciamo ad esempio il caso delle pensioni (di cui è più facile reperire dati omogenei): di una pensione lorda mensile Inps, l’equivalente italiano dell’Avs, minuscola se non minima, la più diffusa, di circa 600 euro al mese, il pensionato ne riceve netti circa 394 euro perché tutto il resto va in imposte. Così di una pensione lorda media di un professionista di quasi 3700 euro ne giungono netti al pensionato solo poco più di 2400 euro. È evidente che un vero stimolo alla ripresa dei consumi può solo venire da una riduzione della pressione fiscale sia sui redditi, a partire dai più bassi, e sia su prodotti fondamentali come i carburanti. Difficile credere che basti per questo una diminuzione del prezzo dei taxi o delle aspirine.
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