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Ci sono libri avvincenti, altri divertenti, altri interessanti. Il libro di Mario Vargas Llosa “La civiltà dello spettacolo” (Einaudi) è un libro necessario, in quanto affronta il tema della fine della cultura in un’epoca che spettacolarizza tutto: dalla politica, all’informazione; dall’arte, alla vita quotidiana. Necessario alla riflessione, intendo.
La cultura, scrive Vargas Llosa (Premio Nobel per la Letteratura nel 2010), si trasmette attraverso la famiglia, ma quando questa istituzione smette di funzionare in modo adeguato, il risultato è la decadenza della nostra cultura stessa. Dopo la famiglia, il principale veicolo di trasmissione della cultura è la religione. Cultura e religione, non sono la stessa cosa, ma non sono facilmente separabili, poiché la cultura è nata all’interno della religione e, sebbene con l’evoluzione storica dell’umanità se ne sia parzialmente allontanata, sarà sempre unita dalla sua fonte di nutrimento da una sorta di “cordone ombelicale”.
Molte riflessioni di Thomas S. Eliot sono state riprese da Vargas Llosa per analizzare la sua idea di società e cultura. Con cipiglio critico, l’autore ci narra come la postmodernità abbia distrutto il mito di quegli studi umanistici che ci formavano, ci umanizzavano. La cultura di massa nasce dal predominio dell’immagine e del suono, sulla parola. I dischi, la tv, il cinema sono accessibili a tutti e sono, per certi aspetti, un “cibo triturato” e precotto che deve arrivare a tutti gli strati sociali di tutti i paesi, processo di “mondializzazione” che viene oggi accelerato dalla rivoluzione cibernetica e in particolare da Internet. A proposito di quest’ultimo Vargas Llosa asserisce: “Non solo l’informazione ha infranto le barriere, ma praticamente tutti gli ambiti della comunicazione, dell’arte, della politica, dello sport e della religione hanno sperimentato gli effetti riformatori del piccolo schermo”.
Anche la politica è stata fortemente deprivata di aura, secondo lo scrittore peruviano, diventando via via sempre più volutamente irrituale, volgare e spettacolarizzata. A ben voler vedere, le famose “convention” statunitensi, sono già dei ridondanti spettacoloni circensi con palloncini, spillette, coccarde, slogan e guest star. E del resto sono stati proprio gli Usa a incorporare per la prima volta nel mondo politico, la figura dell’attore-leader (Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger).
Nella civiltà dello spettacolo il comico è sovrano; ‘comici e buffoni’ sono divenuti maîtres à penser della società contemporanea. Le loro opinioni paiono rispondere a presunte idee progressiste ma, in realtà, ripetono un trito copione snobistico di sinistra: smuovere le acque, far parlare. L’allusione a Grillo, a Dario Fo, a Benigni e ad altri guitti presenti sulla scena dell’intrattenimento globale (Dieudonné in Francia, Crozza in Italia), appare evidente. Ma anche a politici che si abbassano a voler essere comicamente corretti per la loro causa, anche quando comici non sono.
All’ideale tipo del buffone istrionico, Vargas Llosa riconduce pure due personaggi di grido che difficilmente avremmo abbinato. L’artista della provocazione Damien Hirst: “Perfetto esempio di come oggi un creatore non debba più giustificare il proprio talento attraverso le opere, ma diventando lui stesso uno spettacolo. Insomma, un bravo truffatore. Ma oggi agli artisti si chiede di essere dei grandi imbroglioni”. E anche il cyber-attivista Julian Assange, guru di Wikileaks: “Eroe della libertà d’espressione? Ma andiamo. Beffandone la segretezza, ha danneggiato molto più i governi democratici che quelli autoritari. Non per niente è protetto dal presidente ecuadoriano Rafael Correa: uno che fa chiudere giornali, che tiene la stampa del suo Paese sotto costante ricatto, che fa dei Tribunali uno strumento politico. Anche Assange obbedisce alla necessità di trasformare l’informazione in intrattenimento, in scandalo. Mentre la cultura era senso del limite”.
Molti sono i buoni capitoli di questo suo provocatorio pamphlet: ad esempio, l’erotismo il cui grande senso del mistero è stato distrutto dall’inflazione della pornografia, dalla cattiva letteratura porno, dall’educazione sessuale imposta precocemente nelle scuole primarie, dall’ipersessualizzazione prodotta e veicolata dalla pubblicità.
Già, ma come si può ancora dissociare la cultura dal consumo di massa? Come rivendicare il diritto a distinguere tra un’opera d’arte, una bella trovata da una semplice corbelleria senza passare per reazionari? Mario Vargas Llosa – che non ha nulla di un puritano antiedonista – si è attirato con questo libro anatemi che ravvivano la già calda antipatia nutrita nei suoi confronti, dagli intellettuali radical chic.
Nostalgico? Forse. Elitario? Di certo. Conservatore? No, da quando – negli anni Ottanta – voltò le spalle al gauchismo latinoamericano, non ha mai accettato questo appellativo. Continua a definirsi un liberale ‘en el sentido clásico de la palabra’, nel senso classico del termine.
Ma allora perché si lamenta se anche nella cultura “unico valore che ormai esiste è quello fissato dal mercato”?
Vargas Llosa non ha dubbi al riguardo: “C’è che il mercato è un meccanismo freddo: fissa solo le regole del gioco – offerta e domanda – però manca di valori. Quelli dovrebbe metterceli la cultura. Che stabilisce gerarchie tra ciò che è importante è ciò che non lo è”.
Di grande interesse è il capitolo relativo a Internet e alla società dell’informazione in tempo reale secondo il cruciale paradosso “Più informazione, meno conoscenza”.
“Non è vero che Internet sia soltanto uno strumento”, afferma lo scrittore. “È un utensile che diventa il prolungamento del nostro corpo, del nostro cervello il quale a sua volta, in modo impercettibile, si adatta a poco a poco alle funzioni del sistema (il software) di informarsi e di pensare, rinunciando sempre più a quelle funzioni che detto sistema svolge al nostro posto”.
Pertanto secondo lui, più intelligente e sofisticata è la “macchina”, meno intelligente diventerà il nostro cervello deprivato delle sue più importanti funzioni logiche e critico-cognitive.
Come dargli torto? Il Premio Nobel per la letteratura, in questa durissima radiografia del nostro tempo, riflette sulla metamorfosi che la cultura ha subito in questi anni, nell’inquietante subordinazione generale, e invita, pertanto, gli scrittori “a coniugare la comunicazione col rigore, l’originalità e l’impegno creativo, per costruire nuove forme d’arte”.
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