Tempo fa ho scritto un libro dal titolo “La sciarpa verde – Mario Lodi direttore della Prealpina, cronaca d’un incontro editoriale nella Varese di mezzo secolo fa” (Edizioni Lativa). Nell’introduzione racconto dell’amore trasmessomi da mio padre per la Juve, e cito la cinquina di scudetti bianconeri negli anni Trenta. Adesso che c’è stato il bis, non mi pare inopportuno riproporre quella nota di passione calcistica.
“I cinque dell’attacco erano questi: Nicolè, Boniperti, Charles, Sivori, Stacchini. Si leggevano i nomi e ne sortiva una sequenza musicale, parevano inventati apposta per essere messi in fila e cantati, più che pronunziati. Che giocatori e che gol, che melodia e che Juve. Semplificando: che passione. Degli altri ricordo il portiere Mattrel, il terzino destro Garzena, il centromediano Cervato. Poi cado in un vuoto di memoria che non m’importa di riempire. Del passato preferisco trattenere qualche particolare, i contorni, le sfumature. Il resto viene da sé, quando deve venire. E se non viene, significa che ha deciso di rimanere dove sta, ed è meglio lasciarlo al suo posto.
Parlo di Juve perché la Juve è stato un particolare, un contorno, una sfumatura che ha dato colore a molti quadri della vita trascorsa con mio padre. Dico molti quadri e potrei dire molte vite, accodatesi una dietro l’altra a seconda delle epoche. Degli stati d’animo. Del caso. Come capita a tutti. La Juve fu l’amore calcistico d’un papà che se ne infatuò da giovanotto all’inizio degli anni Trenta, l’epoca di Combi, Rosetta e Caligaris, Monti, Orsi e Cesarini. E fu l’amore d’un bimbo nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando vestiva la maglia bianconera il quintetto d’attacco rimastomi nella memoria con la dolcezza dell’orecchiabilità.
Esordii sulle gradinate d’una tribuna in una domenica di gennaio. A San Siro, settore distinti laterali. Naturalmente con la nebbia, perché allora c’era la nebbia. Con un freddo abrasivo, con la cuffia di lana spessa e il paltò che m’incurvava le spalle, con una sciarpa verde e sfrangiata di famiglia, quella che mio padre si metteva al collo la notte, ritornando a casa dal giornale dove lavorava.
Ero partito da Varese. Viaggio sul treno delle Nord, finestrini goccianti d’umidità e rigati di parolacce e disegni, spifferi gelidi e scaldini bollenti. Seduto dirimpetto, lui: con giacca e cravatta, come sempre. Sulle ginocchia il cappello grigio di feltro, di fianco il cappotto accuratamente ripiegato, tra le mani la “Gazzetta dello Sport”. Al bar della stazione di piazzale Cadorna ci contentammo d’un elastico panino al prosciutto, poi il trasferimento sul tram -una specie di dragone irrequieto e ondeggiante- fino allo stadio.
Lo stadio apparve d’improvviso. E fece scomparire l’idea fiabesca e vaga di meraviglia che sino ad allora avevo posseduto. La meraviglia, l’autentica meraviglia, era quella lì: lo stadio. La meraviglia seguente fu vedere per la prima volta la Juve, la mia Juve, la nostra Juve. La terza meraviglia consisté nella scoperta che il cuore riusciva a reggere alle emozioni più forti. Non era vero che si crepasse, come aveva spiegato il giorno precedente la maestra Modesto della scuola elementare “Mazzini”, declamando una poesia di chissà quale autore.
Quella Juve vinse contro il Milan: 2-0, reti di Stacchini e Cervato. L’avrei, l’avremmo vista vincere altre volte, mio padre ed io. Anche perdere, naturalmente, ma sempre convinti che fosse valsa la pena di spartirci un’emozione così. Cioè così rabbrividente: non trovo parola più acconcia per descriverla. Ogni volta -ad ogni partita- si ricominciava come se si trattasse della prima, ed era questo il momento più bello, erano questi gli attimi che sembravano non fuggire mai, erano queste le sensazioni impermeabili refrattarie a svaporare.
Dando retta alla bizzarria, ho creduto di dover cominciare da qui, e da nessun’altra parte, per dire com’è nata la voglia di scrivere questo libro. Che non accampa alcuna pretesa se non d’essere una semplice testimonianza. La voglia è nata da una visita nella memoria e da una singolare coincidenza: dal fatto che la partita di calcio di quella domenica di gennaio si disputò pochi giorni dopo che mio padre era diventato il direttore della “Prealpina”; e dal fatto che da allora a oggi, dalla partita e dall’avvio della direzione, sono trascorsi cinquant’anni. Un periodo di tempo magari insufficiente a legittimare per sempre un verdetto calcistico, il più discutibile che si conosca; ma forse sufficiente a dar conto, in termini di spiccia cronaca e non di pretenziosa storia, d’un verdetto giornalistico che fece sentire gli effetti per quasi ventiquattro anni. Tanto infatti durò la firma di Mario Lodi come responsabile del quotidiano locale.
Avrei potuto rievocare l’intero periodo grazie a una buona documentazione, alla generosa disponibilità di chi lo visse e alla mia esperienza diretta, avendo partecipato di persona all’ultima parte di quell’avventura. Ho scelto diversamente, circoscrivendo il campo del gioco memorialistico ai mesi tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960, proprio sulla scorta emotiva delle esperienze juventine. Che mi hanno insegnato soprattutto il fascino della vigilia, dell’attendere, dello sperare. Poi il fascino del mistero che sta al principio di un’impresa sportiva, e non solo sportiva come ho scoperto più tardi. E, ancora, il fascino dell’inseguire un risultato, niente affatto paragonabile alla gratificazione del risultato raggiunto.
Per eredità d’affetti, conservo del giornalismo varesino di mezzo secolo fa un’idea romantica. E per giovanili frequentazioni del luogo, un’opinione analoga della vita cittadina. Ecco perché ho intessuto con lo stesso filo le vicende dell’uno e lo svolgersi dell’altra. Aggiungo che nessuno scopo celebrativo presiede alla rievocazione dell’incontro editoriale tra il futuro direttore e la proprietà d’un giornale che aveva già settantadue anni. Lo scopo è soltanto di un parziale racconto ispirato dall’intimismo. Uno scopo sentimentale. Come fare il tifo per la Juve. Come indossare la sciarpa verde e sfrangiata di famiglia.”.
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A proposito di Juve. Ecco che cosa scriveva il 4 giugno 1935 sulla Gazzetta dello Sport il celebre giornalista Bruno Roghi in occasione della “manita” juventina degli anni Trenta. Sono righe attualissime:
«Ancora una volta l’elogio della disciplina e della volontà. Ancora una volta il riconoscimento che la Juventus, parlando poco e sottovoce, come s’usa nelle buone famiglie, non perde perché non si disperde. Le vittorie, per essa sono numeri da mettere in fila e da sommare, non serbatoi di chiacchiere. È una squadra, quindi una società, che quando vince esulta, quando perde riflette. Altre delirano quando vincono, si flettono quando perdono. Il mestiere, per la Juventus, significa questo: il domani di una vittoria può chiamarsi sconfitta, ma il domani di una sconfitta deve chiamarsi rivincita… Ma la Juventus ha avuto e detto qualcosa di diverso. Ha detto che le partite si possono vincere o perdere in campo a seconda della legge variabile che presidia i giochi di palla, si tratti delle palline d’avorio o della palla di cuoio. Ma ha detto che i Campionati si vincono e si perdono, essenzialmente, nella sede sociale. Le vittorie sportive non sono soltanto fatti tecnici, o estetici. Sono fatti morali. Sotto questo punto di vista la Juventus fa bene a tenere cattedra. Bene a se stessa, bene ai suoi avversari, bene allo sport nazionale»
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