Ho letto con grande interesse l’intervento di Adamoli del 22 aprile Le due sinistre inconciliabili. Bisogna riconoscere la grande sincerità con cui descrive la fine del centrosinistra tuttavia l’analisi mi è parsa carente.
Anzitutto la pretesa di giudicare la traiettoria di governo indipendentemente dai singoli atti della maggioranza mi pare ipotesi bizzarra. In Italia siamo esperti del cambiamento purchessia, del cambiare tutto perché nulla cambi. Il rinnovamento si compone proprio delle decisioni prese su lavoro, ambiente, scuola e architettura istituzionale. In altre parole non è il posizionamento politico dichiarato a qualificare l’azione del governo bensì il contenuto delle singole scelte. Non basta apporre l’etichetta di sinistra riformista per essere tale, così come non è credibile bollare come armamentario della vecchia sinistra ogni opposizione alla nouvelle vague renziana.
La crisi istituzionale non trova soluzione nel semplificare il processo legislativo o nel rendere più forte il governo. Perseguire una stabilità che prescinda dal consenso è utopia, oltre che pericoloso errore. Non può esistere un governo che sia in grado di produrre un cambiamento duraturo nella struttura della società se questo non si poggia su solide basi condivise all’interno del corpo sociale.
Anzi il tentativo a cui Adamoli aderisce rischia di rivelarsi, oltre che inefficace, dannoso. La crisi delle forme di rappresentanza si è manifestata in rivendicazioni pre-politiche di freno ai privilegi e grande insoddisfazione nei confronti di partiti e istituzioni. Il rischio è che queste rivendicazioni finiscano per rinforzare chi, da destra, è da sempre disposto a rimuovere il conflitto – istituzionalizzato nella democrazia rappresentativa – in favore di un’unità che altro non è se non la mortificazione delle minoranze in favore di una maggioranza passiva e silenziosa.
L’unica soluzione a questa situazione potenzialmente esplosiva sono proposte politiche veramente alternative, differenti e radicali. Questo è il solo modo per fornire forme di rappresentanza migliori e più inclusive, per riportare la fiducia. Quando parlo di proposte radicali non immagino una moderna via rivoluzionaria ma proposte che vadano alla radice dei problemi e non si limitino ad accettarli come dati. Se la sinistra continua a proporsi come quella che fa le uniche cose possibili, le mitologiche riforme attese da vent’anni, solo fatte un po’meglio e con un po’ più di attenzione agli ultimi rispetto alla destra, rischia di porre le condizioni del proprio fallimento.
Helder Camara diceva: “Quando do da mangiare a un povero mi chiamano santo, quando chiedo perché è povero mi chiamano comunista”.
Una parte troppo consistente della sinistra ha smesso di farsi questa domanda. Questo succede in tutta Europa con i partiti che compongono il Partito Socialista Europeo che si dibattono in una crisi fatta di grandi coalizioni con la minaccia dell’ultradestra alla finestra. In questo quadro il PD è andato perfino oltre, attingendo a piene mani dalle stesse idee e proposte che nei vent’anni passati aveva avversato.
In sostanza, chi pensa che, anche a costo di snaturarsi, sia necessario mantenere lo status quo in nome di un nemico ancor peggiore (la destra xenofoba), sbaglia di grosso e non si accorge che, per questa via, rischia di spianare la strada proprio alla minaccia che intende combattere.
Per questo rimango fermamente contrario ad ogni tipo di governo di larghe intese, così come ritengo che l’argomento del voto utile sia ormai del tutto inservibile. Il falso riformismo di questi tempi sta lasciando il campo della battaglia delle idee alle incursioni della destra peggiore, come dimostrano i recenti successi del AfD in Germania o dell’FPO in Austria. E poco conta se il doppio turno nel caso austriaco funzionerà come ha funzionato in Francia con il Front National, mettendo un freno al partito più estremista. Lo scontro è solamente all’inizio e, o rincominciamo a dare risposte credibili, oppure prima o poi il muro cederà.
Giorgio Maran
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