Don Pasquale Macchi e la basilica di San Pietro a Roma, c’è uno stretto rapporto tra il sacerdote varesino e il tempio della cristianità nella Città del Vaticano. Se fu Paolo VI a commissionare le quattro porte bronzee di San Pietro, il suo fedele segretario intrattenne i rapporti con gli artisti designati, controllava i lavori, dava consigli e ne raccoglieva le confidenze: così fece per la Porta di sinistra (da cui escono i cortei funebri dei pontefici) inaugurata da papa Montini nel 1964 con i bassorilievi commissionati allo scultore Giacomo Manzù, per la Porta dei sacramenti realizzata nel 1965 da Venanzio Crocetti, per la Porta del bene e del male di Luciano Minguzzi nel 1977 e per la Porta della Preghiera di Lello Scorzelli, l’ultima inaugurata da Paolo VI con le nuove decorazioni.
Particolare curioso: la porta di Minguzzi era stata rifiutata dalla chiesa di San Petronio a Bologna e fu Macchi a “riciclarla” facendola arrivare a Roma dopo aver raccolto le lamentele dello scultore. Fu ancora Paolo VI, anche grazie ai contatti del segretario, a commissionare i due candelabri di Egidio Giaroli al fianco della statua di San Pietro e i monumenti a Pio XII di Francesco Messina, a Pio XI di Francesco Nagni, a Giovanni XXIII di Emilio Greco. Il 30 giugno 1971 inaugurò l’aula delle udienze generali, chiamata Aula Nervi, poi reintitolata Aula Paolo VI da Giovanni Paolo II, progettata da Pier Luigi Nervi e arricchita nel 1977 dal monumentale Cristo Risorto di Pericle Fazzini, scultura bronzea di diciassette metri.
Macchi incoraggiava, dialogava e controllava. Giunto quasi al termine della sua fatica, Scorzelli gli scrisse: “Sono al ventottesimo giorno di ritocco per la porta di San Pietro, lavoro dieci-dodici ore al giorno” e lo invitò e a farsi sentire in fonderia affinché la fusione procedesse speditamente. Appassionato d’arte contemporanea e convinto che essa fosse uno strumento per comunicare i valori spirituali, don Pasquale si dimostrò non solo intraprendente esecutore, ma creativo collaboratore ed efficiente portavoce di Montini. A Roma teneva le fila di un gruppo d’artisti che avevano l’abitudine di ritrovarsi a pranzo per la festa di San Martino. Ne facevano parte Angelo Biancini, Aldo Carpi, Luigi Filocamo, Trento Longaretti, Silvio Consadori e tanti altri che egli aveva introdotto in Vaticano.
Al termine delle riunioni conviviali, l’astuto sacerdote distribuiva carta e matite e faceva disegnare gli ospiti, poi ritirava i lavori, li sottoponeva al giudizio del papa e non di rado i migliori entravano nella collezione contemporanea vaticana. A Roma Luciano Bodini lavorava in San Giovanni in Laterano ed Enrico Manfrini in San Paolo fuori le Mura. Fu anche grazie alle affinità di carattere e ai buoni uffici del segretario che Montini si appassionò alla produzione religiosa contemporanea e pronunciò il celebre discorso nel 1964 auspicando una nuova, stretta collaborazione tra la Chiesa e l’arte.
Il ruolo avuto da don Pasquale prima al servizio del “suo papa” e poi da arciprete al Sacro Monte di Varese, è stato scandagliato martedì 19 aprile a Villa Cagnola dai tre relatori che si sono succeduti per commemorarne i dieci anni dalla morte. Dopo i saluti del “padrone di casa” don Eros Monti e del vicario episcopale Franco Agnesi, che ha annunciato la raccolta sistematica del patrimonio librario lasciato da don Pasquale, il prevosto Luigi Panighetti ha tracciato il ritratto, “raccolto da chi lo ha conosciuto personalmente, di una persona umile e riservata, molto affezionata a Varese dove amava ritrovare gli amici d’infanzia nell’oratorio di San Vittore”.
Don Angelo Maffeis, presidente dell’Istituto Paolo VI di Brescia, ha ricordato che Macchi fu tra i fondatori e donò un cospicuo patrimonio, attribuendogli una sorta di “pastorale della bellezza”: “Svolgeva una funzione importante e nascosta, quella di segretario, filtro e braccio operativo del papa stando sempre un passo indietro, senza alcun protagonismo personale. Difficile dire che dialogo ci fosse tra loro, Macchi dava l’impressione quasi di nascondersi dietro al papa e nel libro “Paolo VI nelle sue parole” parla in prima persona solo quando affronta l’argomento prediletto. La Chiesa è sempre stata maestra e conservatrice, considera l’arte un mezzo per esprimere la fede. D’accordo col pontefice, don Pasquale voleva rinnovare la tradizione”.
Gli stessi scultori e pittori introdotti in Vaticano dal segretario, ritroviamo rappresentati al museo Baroffio di Santa Maria del Monte dove la conservatrice Laura Marazzi, scelta sedici anni fa proprio da don Pasquale, spiega le connessioni, rivela i contatti e le relazioni che grazie a Macchi “affratellano” il Sacro Monte alla basilica San Pietro: “L’arciprete mi chiese d’introdurre cinquanta opere contemporanee sul tema della Vergine nel corpus del museo, già eterogeneo per la collezione di storia del santuario e la raccolta Baroffio. Fu una scelta lungimirante, educativa. Oggi noi possiamo raccontare il senso alto di questa collezione partendo dal bozzetto della Fuga in Egitto di Guttuso, dalle opere di Bodini, dall’Annunciazione di Manfrini donata dall’arcivescovo Marcinkus. Macchi ha cercato di risvegliare la devozione sul monte e il suo zelo è paragonabile a quello di padre Aguggiari”.
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