Adelina Foresta è figura simbolica, costruita su dati reali, di tante giovanissime forestiere che giungevano in terra varesina in cerca di occupazione all’inizio del ‘900. Considerate crumire dalle compagne di lavoro residenti, perché accettavano paghe più basse e orari pesanti, finivano per ritrovarsi isolate. Abbandonate alla loro solitudine, erano preda facile di poco scrupolosi approfittatori.
Sta finendo maggio, sento il profumo dell’estate nell’aria, e ho voglia di rivedere casa e mama. Ma g’ho anca paura, tanta paura, poarina me, a rivedere la mia famiglia. Le altre mi guardano tute male, non mi hanno mai fato capir niente. Dicono che son putela e che sono gnuranta, e g’ho i oci de bragia com’el diavolo e i cavèi de le streghe. Mi son de Padoa de padre e ferrarese de madre, rispondevo, e voiatre non capite niente di me, e della mia gente e delle mie zone, dove l’acqua core com’el sangue ne la tera e i colori son coti col fuoco. Vu parete tute smorte e false, fate tuto de nascosto e avete paura de dire come che stanno le cose. A me e alle altre, a tute noialtre foreste de la filanda, xé chiamano crumire. Che vuol dir che freghiamo la pagnota a loro e che i padroni, per causa de noiatre, le pagano niente.
Ho voia de casa, de mama, de l’odore del pane nostro. Ho voia de dormire nella paia delle nostre stanze. Mama me picchia, me batte anche lo zocolo sul sedere se no faso come dise lei, ma poi me vole ben. Lo so dai suoi oci stanchi che me guardano la sera, quando che me dise “dormi ben”. Ho voglia di uscire nei prati di notte a vedere le lucciole e le stelle. Ma tornare a casa è difficile. No so cossa dir a mi mama, ma so anche che lei capirà alla prima orgiata, dalle mie tète che se so’ fate grosse. Le più vece me guardano e se tocano de gomito. Disono de me che so’ una che “l’ha saltà la barra”. Lo disono de tutte quelle che la sera no restano a dormire nello stanzone, ma scapano sensa farsi vedere a ballare e a far l’amor. Disono la verità. Io so’ scappata perché tutte le sere, da un mese, sentivo sempre quel suono dell’organino che saliva nell’aria e no me lassava dormire. Xéra la musica che sentivo dai noni a Ferrara, l’anno prima, e che mi piaceva tanto perché l’avevo ballata col mio bel Z. Una sera hanno suonato anche l’opera del Verdi, che la conosso perché mia mama diseva che aveva conosciuto papà mentre fasevano quella musica.
Ho pianto tanto le prime noti in questa stansa grande e fredda, e molte me deridevano e disevano che me la fasevo sotto perché no gh’avevo la mama vizina. È vero che g’ho quindesi anni soltanto. Ma mi pensavo a lu, ai so bei oci, ai so bocoli neri, alla sua boca dolze e morbida che pareva quella dei putti d’oro del pulpito dove don Aldisio saliva la domenica a predicare per la messa. E inveze la matina me tocava alzarme alle zinque e cominciare a lavorare. Fori xéra ancora buio e nello stabilimento la luce xéra poca e la nebia che saliva dai pentoloni caldi andava da per tuto e me faseva sudar, e noi stavamo con le mani a bagno dalla mattina a la sera. La sera le mani xérano tutte tagliate e per parecchi giorni, finché non mi sono abituata, me sanguinavano e mi pareva di dovermi vergognare di quelle dita rovinate da poareta. Poi m’è arrivata una lettera di mia sorella e ho capito da lei che il mio bel Z. s’era preso un’altra tosa del paese, che no avrebbe più saputo cossa farsene di una ch’era andata a fare la filanda lontano da casa e che forse anche lu sapeva che io potevo un giorno saltare la barra e che le mie mani erano già tutte piagate. Quella sera piangevo sulla lettera e le parole de mia sorela s’erano tute dislenguate sulla carta per le lacrime che avevo versato. Quando ho sentito l’organino che faseva quella musica dei miei mi sono levata dal letto di nascosto e son sgusciata fuori col vestito a fiori della festa. Mi son seduta in disparte sotto al pergolato, un po’ ritrosa perché era la prima volta che andavo là. Poi ho cominciato a sentire la musica sempre più forte, sempre più forte. E un giovanotto mi si è avvicinato e el me g’ha chiesto se volevo ballare con lu. Perché no? g’ho dito, e lu m’ha presa per la vita e m’ha fatta girar veloce come neanche il mio bel Z. sapeva fare. Avea gli oci ciari e i cavei biondi e lissi come seta, me pareva un bel signorino de queli che la mama se cova e se magna de basi anche quando non sono più putei. Lorenzo, mi chiamo, el me diseva mentre che mi faceva vorticar al suono di un valserino. Da quella sera non ho più smesso di andare dietro al suono dell’organetto. La suora che ci teneva a bada negli stanzoni mi ha presa di mira. Attenta a te, se non vuoi finire male. Ma a me pareva che più male de cossì non saria potuta finir. Xèro, e sono ormai, una di quelle centinaia de poarete che si ammalano de dolori e si ammazzano di fatica come can, con le mani a mollo e la schiena curva tutto il giorno. Lavoravo anch’io per il padrone che passa con la testa alta a vedere se ci fermiamo e ci squadra a una a una come se fossimo roba de lu e qualche volta, ho sentito, se n’era presa qualcuna delle più belle per farci i comodi suoi e quando non gli era piaciuta più, l’aveva rimandata “al so paés”.
Meglio mettersi con un bel putelo che ti fa ballare e si stringe forte al suono dell’organino. Una sera Lorenzo ha preso a stringermi più forte. Sentivo la soa boca sempre più visina alla mia, i so oci sulla scollatura del mio vestito. Io non capivo più niente e me pareva d’essere già in paradiso. Semo andati sempre più lontani, sul prato e sotto il cielo. Xèra tuto stellato e la musica continuava da lontano a ritmar danse. Ho sentito l’odore dell’erba sotto di me e le mani di Lorenzo sollevarmi il vestito.
Il giorno dopo mi guardavano tutte male. O forse pareva a me. Ho cominciato a non sopportare più quelle lunghe giornate di lavoro che mi allontanavano da lui, a mal digerire le occhiate di traverso delle più vecchie.
Anche le catene dove stanno appesi i pentoloni della minestra mi parevano catene del cuore e della mia vita da poveretta. E cosa faceva intanto il mio bel signorino, mentre io lavoravo e smaniavo pensando a lui? Mi sentivo morire a stare lì dentro e non aspettavo che la sera, quella musica e quell’odore di prato. Per una settimana di fila Lorenzo è venuto da me. E abbiamo fatto l’amore.
Poi un giorno, verso Cabiaglio, hanno cominciato a salire certi nuvoloni. Sfioravano basso i prati, come le cornacchie che chiassavano sguaiate planando dai rami dei noci e dei castagni. Mi sentivo strana e inquieta e mi pareva stesse succedendo qualcosa più grande di me. La sera ha cominciato a piovere e non ha più smesso per giorni e giorni. Nella filanda saliva l’umidità e la nebbia montava da dentro e da fuori, come se invece dell’estate fosse arrivato l’autunno.
C’è voluto del tempo prima che l’organino tornasse al suo posto a dispensar note alla gioventù disgraziata di questi posti. Ma quando ho potuto tornare sotto la pergola, Lorenzo non s’è più visto. Partito, ha detto qualcuno, a fare il soldato. Forse lassù in Veneto, mi ha rincuorato la mia amica di Mantova. L’Agnese invece rideva maligna. Sussurrava, a labbra strette, “Calabria”.
Qui non voglio più rimanere. Il grembiule di lavoro mi stringe un po’, già da qualche tempo, e mi sento gonfia. Solo la pelle del viso s’è fatta luminosa e davvero non so come possa esserlo con tutta l’infelicità che ho dentro. Devo andare, prima di diventare lo zimbello della filanda. Per fortuna la stagione sta per finire e io torno a casa come tutte le altre. Ho voglia di casa, di mamma, di pane. Ho voglia dell’odore del fieno nella mia stanza. Ma ho paura di quello che mi aspetta.
Però non farò come la Carolina, che ha abbandonato il suo bambino alla ruota della Carità. Il mio bambino starà con me. Sarà biondo e avrà gli occhi chiari, e gli darò un mondo di baci. Come a quel bambolotto che mi aveva regalato la figlia della contessa di Ferrara, e che mi aveva rotto mio fratello, per farmi un dispetto, quando gli avevo detto che al bambolotto volevo più bene che a lui.
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