Ha ancora senso, si chiedono taluni, singoli intellettuali o gruppi politici, essere antifascisti, oggi che il fascismo non esiste più? O perlomeno, oggi che il fascismo riconoscibile come tale è attribuibile soprattutto a frange di giovani che si identificano in un sistema politico forte, accentratore e corredato di una simbologia di cui noi, più vecchi, sappiamo sia la provenienza sia gli effetti nefasti. Anche se andrebbe tenuto in maggiore conto il neofascismo crescente di certe destre europee.
Nel nostro paese oggi si può essere antifascisti per scelta personale, ma ci sono situazioni in cui si deve esserlo per compito istituzionale. Pensiamo agli insegnanti che hanno dovuto sottoscrivere un patto di fedeltà alla Costituzione. Ed è fuor di dubbio che la nostra comunità nazionale è una comunità antifascista per definizione, essendo fondata su di essa.
Essere antifascisti non vuol dire essere genericamente “contro”. Ma di certo essere contro idee e comportamenti che, in quel determinato periodo storico, hanno contribuito alla corruzione della nostra società, dato vita a un lungo periodo di guerre insane, a un ventennio di assopimento forzato delle libertà, della giustizia, del rispetto per gli altri.
L’antifascismo è contro chi ha fatto ricorso alla violenza fisica per ridurre al silenzio, ha praticato l’oppressione verso persone di diversa cultura o di altra religione, messo in atto pratiche illiberali e instaurato metodi di sopraffazione, trasformato la giovane e immatura nazione post unitaria in un regime antidemocratico.
Ecco dunque che essere antifascisti comporta il contrario di ciò che è stato il fascismo.
Per questo l’antifascismo non è un valore astratto, un generico richiamo alla convivenza pacifica, una sorta di gentilezza d’animo, un atteggiamento di tolleranza diffusa e benevolente. Ma un concetto “pieno” di significati che resistono da decenni e si rifanno a una precisa idea di mondo, basata sulla tutela della libertà, sulla difesa delle minoranze, sulla giustizia.
Una decina di anni fa Sergio Luzzatto, in un pamphlet intitolato “La crisi dell’antifascismo”, suggerì la tesi che tale crisi avesse avuto inizio dalla mancata trasmissione dei valori antifascisti alle nuove generazioni. Presso le agenzie educative, la scuola, la famiglia, i media, le istituzioni religiose, con gli anni si è indebolita l’idea che l’antifascismo sia uno dei valori basilari della convivenza civile. Si sono persi di vista i valori resistenziali, punto d’incontro tra persone di diverso orientamento politico e di generazioni diverse. Si è allentato il legame con quel collante comunitario e unitario che è stato l’orizzonte politico della neonata nazione repubblicana.
Oggi come ieri sono certa che l’antifascismo possa fungere da strumento politico, semplice ed efficace, ma a condizione che la generazione nata dopo la guerra, la nostra, riesca a mantenere viva la sua forza di istanza storica prorompente. Sempre che gli antifascisti di oggi, come quelli che ieri hanno contribuito alla liberazione del paese, riescano a utilizzare il suo valore intrinseco come spinta al presente in opposizione alla rinascita di neofascismi e neonazismi, in Italia come in Europa.
Infine, ricordiamo che antifascismo, anche settant’anni dopo, significa anche non appiattirsi su un generico egualitarismo tra vinti e vincitori, tra fascisti e antifascisti. Impariamo dalla risposta di Vittorio Foa al fascista Giorgio Pisanò che, incontrandolo, gli aveva detto: “Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, ora possiamo darci la mano”.
Foa aveva replicato: “È vero, abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore; se avessi vinto tu, invece, io sarei ancora in carcere”.
Nella ricorrenza del 71° anniversario della Liberazione, proviamo a dedicare qualche matura riflessione al tema dell’antifascismo.
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