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Presente storico

I LUIGINI E I CONTADINI

ENZO R. LAFORGIA - 22/04/2016

Carlo Levi a Ferrandina (Matera)

Carlo Levi a Ferrandina (Matera)

Lo scrittore Carlo Levi (1902-1975) è noto ai più come autore di Cristo si è fermato ad Eboli (1945). Era nato a Torino, dove si era laureato in Medicina. Nella sua formazione culturale e politica era stato fondamentale l’incontro con Piero Gobetti (1901-1926). Successivamente si sarebbe avvicinato al movimento di Giustizia e Libertà e avrebbe dato inizio ad una intensa militanza antifascista. Conobbe il carcere e il confino. Da quest’ultima esperienza (otto mesi ad Aliano, in Basilicata), nacque il suo romanzo più famoso. Dopo aver preso parto alla lotta di Liberazione, approdò nella capitale, per dirigere l’edizione dell’«Italia libera», quotidiano del Partito d’Azione.

A questa esperienza è legato un altro suo romanzo straordinario, L’Orologio, composto tra il 1947 ed il 1949 e pubblicato nel 1950. È un romanzo dalla complicata struttura, che ruota intorno alle dimissioni del governo guidato da Ferruccio Parri. Il tempo dell’azione occupa tre giorni, ma la narrazione è continuamente interrotta da sogni e ricordi di vicende vicine e lontane. Il protagonista, Carlo, come lo scrittore si è trasferito a Roma da Firenze, pochi mesi dopo la Liberazione, per dirigere un giornale. Il tempo presente appare al protagonista come un tempo di «mutamenti», ma le vicende politiche di cui sarà testimone lo porteranno a scoprire la presenza di forti resistenze ad ogni cambiamento. In questo senso, la vicenda del governo Parri sarà esemplare. Parri, eroe della Grande guerra, vero ispiratore di Vittorio Veneto, inflessibile antifascista, protagonista indiscusso della Resistenza, fu indicato dai partiti antifascisti a guidare il primo governo dell’Italia liberata nel 1945. Questa esperienza politica durò meno di sei mesi, da giugno a novembre.

Carlo Levi ci racconta il clima politico e morale, che fa da contorno alla crisi del governo Parri: «[…] Erano giorni importanti. Il Ministero Parri era caduto: il governo Parri era stato rovesciato, e la crisi si protraeva, con le sue attese, i suoi colpi di scena, le sue manovre. Sapevamo tutti benissimo, come una verità evidente e ovvia (anche se la maggior parte degli uomini politici dei vari partiti pareva non rendersene affatto conto), che quelli erano avvenimenti decisivi, che il futuro dell’Italia, per molti anni, ne sarebbe dipeso; che si trattava di decidere se quello straordinario movimento popolare che si chiamava la Resistenza avrebbe avuto uno sviluppo nei fatti, rinnovando la struttura del Paese; o se sarebbe stato respinto tra i ricordi storici, rinnegato come attiva realtà, relegato tutt’al più nel profondo della coscienza individuale, come una esperienza morale senza frutti visibili, piena soltanto delle promesse di un lontano futuro».

All’incirca a metà del romanzo, il protagonista si reca presso il Viminale per seguire la conferenza stampa nel corso della quale il presidente del Consiglio avrebbe annunciato le proprie dimissioni. Parri è rappresentato come «un crisantemo sopra un letamaio». Intorno a lui, si muovono «vecchi, strani animali preistorici»: «Era un bel giorno, un giorno di vittoria, anche per loro. Il solo problema era quello di saper far durare ancora la propria lunga vita, di non morire, ora che ci sarebbe stato bisogno di loro, che ci si sarebbe rivolti alla loro supposta saggezza, frutto di così meravigliosamente lunga e ripetuta insipienza, per salvare il Paese e lo Stato».

Molti anni dopo, nel 1972, lo stesso Parri si esprimerà in questi termini in merito alla caduta del suo governo: «Mi accorgevo solo ora quanto danno veniva dalla condizione di movimento minoritario della Resistenza: minoritario socialmente e territorialmente. Una parte del paese non la capiva, le classi possidenti, specialmente gli agrari, la temevano a Sud e a Nord. I contadini del mezzogiorno non avevano altro modo di aver voce e peso che bruciar municipi ed invader latifondi. E non avevamo ben capito che la struttura burocratica e statale del fascismo era stata appena scalfita dall’epurazione, i giudici docili e i professori zelanti erano ancora al loro posto. E non avevamo ben capito che, ripreso fiato, questa Italia che si era trovata così bene con il fez e con l’impero avrebbe cercato di riprendere il posto ed il potere, con la stessa sagomatura mentale e morale che vent’anni di fascismo le avevano dato».

In fondo, come un amico spiegherà a Carlo, le due vere Italie che da sempre sembrano contrapporsi sono quella dei Luigini e quella dei Contadini. Non è una distinzione di classe o di cultura. I Contadini sono i produttori, «quelli che fanno le cose». I Luigini (il nome è ripreso dal personaggio di don Luigino, podestà nel Cristo si è fermato ad Eboli) rappresentano la grande maggioranza della «sterminata, informe, ameboide piccola borghesia», moralmente misera, che non si esprime né parla e che tuttavia rappresenta la maggioranza del Paese. Il sistema politico italiano era restato, secondo Carlo Levi, quello borbonico, perfezionatosi col fascismo. Non è stato rinnovato da Parri, non potrà essere riformato dai partiti. Bisognerebbe, si dichiara a un certo punto, pensare «a un’infinità di organizzazioni autonome, che si occupino di problemi veri, quelli che non si usa chiamare politici, e che sono poi la sola politica reale, legate insieme da una organizzazione comune, che sia quella che parla in nome di tutti». L’impresa, conclude il personaggio di Andrea, è quasi impossibile, «ma verrà presto il giorno che bisognerà mettercisi».

Oggi sono trascorsi più di settant’anni da queste visioni amare e profetiche, dal naufragio delle speranze incarnate dall’esperienza di Ferruccio Parri. Ancora confidiamo che i Contadini possano diventare la maggioranza in questa nostra Italia.

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