Il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale è stato duro e difficile, ha comportato rinunce, spirito di adattamento, cambiamenti abbastanza radicali nei modi di lavorare, di pensare e di vivere. La nascita delle prime industrie ha impresso cambiamenti abbastanza profondi nel modo di porsi nei confronti della realtà, con particolare riferimento al mondo delle relazioni sociali.
Sul fronte politico sindacale, per esempio, le lotte sono state lunghe e difficili, hanno coinvolto passione, coraggio, il senso della giustizia, l’aspirazione a una società più equilibrata e meglio configurata sul piano dei diritti e dei doveri. In molti casi i lavoratori si sono scontrati con un mondo imprenditoriale libero e decisionista nelle varie fasi le fasi della gestione aziendale, molto più orientato sulla qualità della produzione che non sulla condizione umana.
Il passaggio è stato comunque recepito con grande passione e impegno, perché per la prima volta i prestatori d’opera potevano contare su un orario di lavoro meno massacrante. Non più dunque le fasi ininterrotte della campagna, ma un orario distribuito nell’arco della giornata e dopo a casa, a curare l’orto, il giardino, a dare una mano nelle attività domestiche.
Un sistema decisamente più umano, più confacente al ruolo della famiglia, ma non privo di evidenti situazioni di sfruttamento, di un autoritarismo di maniera tipico di una classe dirigente abituata a gestire le situazioni col bastone del comando. Bisognava aspettare ancora molto tempo prima che si configurasse un sistema industriale regolato in modo meno dispotico e più umano.
La politica e le organizzazioni sindacali hanno fatto la loro parte, cercando di proteggere la fascia debole del contratto aziendale, quella più esposta alle bizze caratteriali del padrone. Poteva capitare di incontrare persone capaci di umanizzare la produzione, ma erano molto rare e non sempre abituate a districarsi in un ambito estremamente complesso come quello delle relazioni sindacali. Dopo diverse fasi di assestamento la volontà di dare una svolta si è fatta sentire e ha prevalso in tutti e nettamente la voglia di uscire dal pantano in cui eravamo piombati con il fascismo e la guerra.
C’è stata una fortissima ripresa economica, sollecitata dai partiti, da uno stato con le idee chiare, dalla determinatissima volontà dei cittadini italiani di rimettersi in piedi e di raggiungere il tanto sospirato benessere economico, che in molti casi coincideva con la macchina, la lavatrice, la televisione e l’acquisto di una casa, da sempre il punto d’arrivo.
Per un certo periodo il paese ha dato prova di saggezza, di capacità, di grande impegno e la volontà comune ha sviluppato un nuovo concetto di italianità, non più legato a un patriottismo propagandistico, violento e prevaricatore, ma a una coesione profonda di valori, di cultura, di regole, di leggi, di democrazia e di storia. Niente più propaganda coercitiva, ma impegno teso a dimostrare il vero valore di un paese distrutto da una guerra lunga e drammatica. Gli anni sessanta sono stati all’insegna di una grande produttività. Gl’italiani hanno imparato a vestirsi bene, ad andare in vacanza al mare e in montagna, a spendere in beni di consumo i propri guadagni. Lambrette, Vespe, moto, motorini e un’industria automobilistica estremamente mobilitata ad andare incontro ai gusti degl’italiani. La Fiat con le sue macchine e con la sua capacità ricettiva domina il mondo industriale, detta le regole del gioco, anche grazie a una famiglia molto ampia e ben strutturata, versata nel sistema produttivo e in quello delle relazioni sociali.
L’Italia mostra così la sua creatività e la sua genialità in tutti i campi, si piazza al centro della grande avventura petrolifera e nella ricerca degli idrocarburi, grazie a uomini capaci di orientarsi con intelligenza e con intuito in un difficile consesso mondiale, dove Europa e Stati Uniti dettano legge. Le banche diventano il perno del rilancio economico del paese, mettendo al sicuro il risparmio e attivandolo con forme adeguate alle aspirazioni della gente. La vecchia civiltà contadina cede il passo, ma non rinuncia alla sua trasformazione e rilancia, dimostrando che è possibile cambiare in senso industriale. Comincia a dotarsi di mezzi meccanici, di strumenti e attrezzi per rendere meno pesante il lavoro della gente, cercando di potenziare i tempi e la qualità della produzione. Le vecchie fattorie diventano aziende meccanizzate, attente a cogliere e a sviluppare i prodotti con forme innovative di produzione.
Tutto lo slancio degl’italiani è nel fare, non esiste altro e l’obiettivo primario è: raggiungere il benessere economico e mantenerlo. La guerra è stata un monito, ha segnato il cuore di un paese distrutto materialmente e moralmente. La forza del paese si manifesta soprattutto nella comune volontà di riemergere, nella coesione, nella capacità di unirsi, di mettere da parte gli odi e i rancori che avevano creato zizzania nel periodo bellico e di puntare decisamente alla ricostruzione.
Ma chi pensava che tutto fosse realmente finito si sbagliava. Sotto la cenere covavano irrequietezze e turbolenze. Alla fine degli anni sessanta una “rivoluzione” strisciante attraversa la scena europea e si insinua nelle università italiane, facendo scattare idealismi di frange piuttosto violente. Il Sessantotto scoperchia un mondo studentesco fortemente impregnato di idealismi, di ultrapolitica, di filosofia, di sociologia, di piazze che diventano teatro di ribellioni violente, ribellioni che lasciano anche vittime sul campo. Si ricercano simboli di un mondo politico internazionale. Mao, Che Guevara, il mondo arabo/palestinese e molti altri personaggi vengono presi come modelli da anteporre ai sistemi democratici occidentali. Un periodo molto difficile, che induce a riflessioni ferme e profonde su un sistema che era parso stabile e inattaccabile e che improvvisamente mostrava tutta la sua fragilità, la sua incapacità a metabolizzare comportamenti e sistemi. Passa il vento sessantottino e lascia impronte molto ben visibili in tutto il panorama politico/culturale italiano.
Gran parte della nuova classe dirigente, infatti, proviene da quel periodo, è molto politicizzata, in alcuni casi è convinta di essere dalla parte giusta, di essere il nuovo che avanza, ma in realtà non è sempre liberale nei confronti di chi la pensa diversamente. Resta il fatto che la forza studentesca del sessantotto diventerà forza di comando e di governo, sarà la nuova classe dirigente. Gli anni Settanta sono anni difficili, che risentono ancora profondamente di una situazione generale irrisolta sul piano dell’assimilazione storica degli eventi. La politica italiana non ha ancora superato le vecchie divisioni e le vecchie tensioni. I rancori e gli odi di fondo permangono, non solo, si caricano di nuove turbolenze e sfociano in scontri che lasciano sul campo numerosi morti.
Destra e sinistra ridanno vita a faide, lotte, assassini e alla stagione delle bombe. Bombe sui treni, nelle banche, nelle piazze, sembra di essere stati catapultati nel pieno di una vera e propria guerra di classe. L’uccisione di Aldo Moro, il presidente della Democrazia cristiana da parte delle Brigate rosse è il simbolo di un paese in crisi, attraversato da tentativi rivoluzionari e da odi profondi. Da quel dramma italiano sono passati molti anni e il mondo sta cambiando ancora radicalmente, non solo all’interno dei nostri rapporti sociali, ma anche e soprattutto nei rapporti con quel mondo esterno che bussa alla nostra porta per avere giustizia. È forse il momento più difficile, quello che ci trova impreparati.
Abbiamo dato per scontate troppe cose, pensavamo che il nostro mondo dorato fosse inattaccabile, stabile, ricco al punto giusto, stimato e amato nel resto d’Europa e nel mondo per la sua proverbiale duttilità, per la sua creatività e invece ci rendiamo conto che secoli di storia rischiano di cancellare tutto, riversandosi come un fiume in piena sulle nostre certezze. Uomini, donne e bambini arrivano da ogni parte del mondo con mezzi di fortuna e bussano, chi per passare, chi per restare, chi per tirare il fiato dopo le terribili paure della guerra, della fame, della povertà, della schiavitù. Il paese più cattolico del mondo si trova improvvisamente a ospitare la povertà umana, mentre quel continente europeo sul quale costruivamo il nostro futuro sembra scomparire dietro muri, barriere, reticolati.
L’Europa delle culture dimostra ancora una volta le sue forme di nazionalismo esasperato, quel piglio neocolonialista che l’aveva caratterizzata nei secoli passati. Mentre il terrorismo miete le sue vittime, i popoli europei ragionano in termini isolazionisti, si arroccano su posizioni nazionaliste, guardano al futuro pensando al loro presente. La politica italiana e quella europea, sono di fronte a un esame che richiede collaborazione, unione, condivisione, fantasia, creatività, capacità organizzativa, orientativa, richiede soprattutto un impegno di solidarietà umana come non era mai stato affrontato prima.
La politica deve dimostrare le sue capacità e lo deve fare in tempi brevi, affrontando i grandi problemi delle persone con la dovuta capacità. Per la prima volta si riapre l’immenso laboratorio umano con i suoi problemi e le sue aspettative, lo fa con una irruenza mai vista, come se la vita fosse il bene più grande da proteggere e da promuovere. Mentre i nazionalismi sono ancora impegnati a difendere le loro concessioni bancarie, c’è chi, con grande fatica e determinazione, si presta a straordinarie operazioni di ricostruzione materiale e morale del mondo, oltre i ristretti confini religiosi, umani e culturali. Mai come in questo momento la politica ha la grande opportunità di dare risposte convincenti, intelligenti e umanamente importanti alla vita, a quella vita che abbiamo ritenuto per troppo tempo prerogativa di alcuni e non di altri.
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