Subito dopo la guerra, il nome di Giuseppe Macchi, del comandante Claudio, evocava, a Varese, l’immagine di un eroe da film western: uno «spauracchio», con tanto di baffoni e barba lunga. Fu lo stesso Claudio a riferirlo in una sua ultima memoria destinata al volume che raccolse gli atti di un convegno di studi sul secondo dopoguerra, svoltosi a Varese il 30 ottobre del 1996 (La vita ricomincia. Politica, economia e cultura a Varese negli anni della Ricostruzione, Milano, Franco Angeli, 1998). Claudio non fece in tempo a rileggere quelle pagine. Si spense, prima che quel libro vedesse la luce, nel febbraio del 1998.
Era nato il 9 marzo del 1921 a Biumo Superiore da una famiglia di origini contadine. Il padre, tuttavia, era entrato giovanissimo in fabbrica e aveva coltivato idee socialiste. Anche Claudio, che in casa chiamavano Peppino, fu avviato al lavoro subito dopo le scuole medie. E molto presto iniziò a coltivare quelle passioni che lo accompagneranno per tutta la vita: il ciclismo e la politica. Il luogo in cui queste due esperienze si incrociarono confondendosi fu il negozio di biciclette di Augusto Zanzi, detto il Gusto. I due stanzoni del negozio di via Veratti furono una vera e propria scuola di antifascismo nella fascistissima Varese. Lì si incontrarono Quinto Bonazzola, Renato e Anselmo Morandi, Luciano Comolli, Giuliano Modesti, Elio Maierna, Luigi Ambrosoli, Marcello Novario, Ambrogio Vaghi e molti altri ancora (si veda, a tal proposito, la rievocazione che ne fece Quinto Bonazzola nel volume firmato da Franco Giannantoni e Ibio Paulucci, La bicicletta nella Resistenza. Storie partigiane, uscito nel 2008).
In guerra, dal 1941, il futuro comandante Claudio indossò la divisa da aviere. L’8 settembre lo colse a Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia, e immediatamente decise di raggiungere Varese. A piedi.
Dopo la battaglia del San Martino, in Valcuvia (13-15 novembre 1943), sempre più intensa fu l’azione del Gruppo garibaldino d’assalto intestato a Gastone Sozzi, antifascista nato a Cesena nel 1903 e morto a seguito delle violenze fasciste nel carcere di Perugia il 1928. Tra i primi animatori di questa formazione vi furono Quinto Bonazzola, Marcello Novario e Walter Marcobi.
La natura del territorio in cui sorsero i primi nuclei di resistenza al nazifascismo, a Varese come altrove condizionò l’azione partigiana. Nel Varesotto, lembo di terra incuneato nella Svizzera, con una fitta presenza di industrie, da subito presidiato dalle forze armate germaniche, era impensabile una guerra di montagna (come del resto aveva dimostrato l’episodio del San Martino). Obbligata fu quindi l’adozione di una tattica di guerriglia, caratterizzata da imboscate, assalti di sorpresa e scontri rapidi e veloci.
Walter Marcobi fu poi vittima di un agguato nei pressi di Capolago il 5 ottobre del 1944. Il comando della formazione gappista, diventata nel frattempo 121a Brigata d’assalto Garibaldi e successivamente dedicata al suo primo comandante, fu assunto da Claudio, che sino a quel momento aveva svolto funzioni di vicecomandante.
Impossibile ripercorrere in questa sede le vicende di cui fu protagonista la brigata garibaldina sino all’aprile del 1945. Lo stesso Macchi ne lasciò una memoria dettagliata, la cui prima redazione risale agli anni Sessanta e che nel 2003 è stata riproposta dall’editore Macchione, arricchita dal figlio del comandante partigiano con documenti e particolareggiate annotazioni (Resistenza contro il nazifascismo nella zona di Varese. La 121a Brigata Garibaldi «Walter Marcobi»).
Continui furono gli attacchi indirizzati a sedi e a mezzi militari; incessante fu l’azione di boicottaggio o di danneggiamento della produzione bellica. Rocambolesco fu il blitz realizzato il 28 luglio del 1944 per liberare Marcello Novario dall’ospedale cittadino. Novario era stato arrestato dai fascisti a fine gennaio e, dopo essere stato sottoposto a pesanti interrogatori presso la sede dell’Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana in via Dante, era stato rinchiuso nel carcere dei Miogni. Qui, con l’aiuto del dottor Muzzarelli, era riuscito a procurarsi un febbrone, per il quale era stato necessario il ricovero ospedaliero. Per liberarlo, furono scelti Alfredo Macchi, Mario Ossola, che proveniva dal movimento cattolico, e Giuseppe Macchi. Verso le dieci di sera, l’operazione fu portata a termine e, mentre i fascisti iniziarono a sparare, i due Macchi, Ossola e Novario si allontanarono. In bicicletta.
Dopo la liberazione di Varese, quando nel giugno del 1945 tutte le formazioni partigiane vennero smobilitate, Giuseppe Macchi assunse il comando di tutte le forze di polizia. Per tutta la vita non trascurò mai le sue due grandi passioni: l’impegno politico e la bicicletta. Io l’ho conosciuto alla fine degli anni Ottanta. Ne ricordo la figura alta e imponente e la foga del racconto. Ho dato un’occhiata alle molte sue foto raccolte nel volume curato dal figlio (il cui nome è Claudio, naturalmente). Poco più che ventenne, in divisa militare durante le sfilate del maggio 1945 o, più avanti negli anni, durante le tante iniziative pubbliche. Non vi ho trovato traccia né di barba né di baffi. Ma per tutta la vita, fu accompagnato da un alone di leggenda. Per tutti restò sempre il comandante Claudio.
Sabato 9 aprile alle 16 nel salone della cooperativa di viale Belforte 165 si terrà la cerimonia di intitolazione della sezione Anpi di Varese al “comandante” Claudio Giuseppe Macchi. Dopo il saluto del figlio Giuseppe, il professor Laforgia, docente di storia e direttore dell’Istituto varesino per la storia della Resistenza, terrà una conferenza dal titolo “La Resistenza a Varese e il ruolo di Giuseppe Macchi detto Claudio”.
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