Ci sono momenti della vita in cui senti il bisogno di fermarti, di appoggiare il corpo da qualche parte e attendere che lo spirito si riappropri della sua libertà, della sua voglia di nuotare finalmente tranquillo nella pace e nel silenzio, lontano da occhi indiscreti, là dove il pensiero diventa introspezione, rivisitazione interiore, libertà di scegliere un cammino che punti decisamente verso l’orizzonte del mistero, alla ricerca di quelle figure che hanno riempito la giovinezza d’immagini, atti e momenti che sono passati troppo in fretta, lasciandoci qualche volta in balia d’ inadeguatezze sparse qua e là.
Tra i tanti personaggi di cui sentiamo maggiormente la mancanza oggi c’è proprio lui, quel Gesù di Nazareth che ha accompagnato noi e le nostre famiglie sul cammino della speranza, quando la luce spesso mancava e proiettavamo le nostre ombre sui muri di una cucina oppure gettavamo le nostre incertezze nel candore di una bella nevicata. La televisione aveva appena fatto capolino, la radio era ancora la regina della casa e i nonni dormivano sonni tranquilli accanto ai loro nipoti. Le voci erano silenziose, ognuno sceglieva lo spazio nel quale deporre la propria stanchezza, la propria voglia di amare. In un clima di raccolta intimità, rotta soltanto da un benevolo rimprovero materno o paterno, s’inseriva la storia di una fede che faceva pensare, che ci chiedeva di amare i genitori, Dio, le persone che incontravamo e dove c’era sempre un sacerdote pronto a dare spazio ai nostri dubbi e alle nostre speranze.
Era tutto così semplice e umano. C’era un grande rispetto generazionale. I giovani rispettavano i vecchi e i vecchi aiutavano i giovani, non c’era bisogno di consultare testi, di seguire corsi, d’ imparare l’arte della comunicazione per esprimere i propri sentimenti. Gesù era una molla e un freno, una riflessione profonda e una miriade di colori che illuminavano la nostra stanza, i nostri pensieri, la nostra vita. Bastava pochissimo. Il senso del peccato era semplicemente la certezza che andare oltre non si poteva, che bisognava fermarsi a riflettere, onde evitare qualche ceffone secco, dato con trasporto cristiano.
Erano tempi in cui tra Dio e l’uomo c’era un dialogo costante, ci si parlava spesso, anche solo attraverso una meditazione breve e semplice, fatta di voglia di essere coerenti. Prima di dire una parolaccia ci si pensava due volte e la bestemmia era pane per l’inferno. La vita era tutta sulla strada o quasi, nei vicoli, nelle piazze, nei campi e i giochi erano quelli che si costruivano con le proprie mani: una capanna, una spada, un arco con le frecce, un giornalino, un amico che diventava il Milan o la Juventus. Le musiche preferite erano i canti dei grilli nelle sere d’estate, quando la gente usciva dalle proprie case per parlare col vicino, per raccontare la propria giornata e per ascoltare. Una comunicazione silenziosa, fatta di lunghi sospiri, di attese e di conferme, di un cielo che diventava lo specchio comune di grandi e piccini, operai e impiegati, contadini e borghesi.
La gente aveva sempre un sorriso, lavorava con gioia guardando al futuro senza il peso di tasse ammazzasette, senza dover morire per affermare la forza e la bellezza del lavoro e della collaborazione. Lavorava sodo, s’ingegnava, mandava i propri figli a catechismo perché sapeva che lì imparavano l’educazione prima di tutto. Non si parlava di tangenti, di cattiverie, di soverchierie, ma di gente, di animali, di ore, di progetti, con una pacata predisposizione del cuore e della mente alla vita quotidiana. I ragazzini sognavano, guardavano al futuro inventandosi il presente, cercando di costruire piccoli frammenti di realtà.
Si cercava disperatamente un quadrifoglio nella marea di trifoglio che circondava e che a volte sommergeva i corpi. Tutto aveva il sapore di una normalità bella, avvincente nella sua semplicità, fatta di piccoli pensieri, di piccole rivalse, di piccole speranze, tutto avvolto come in un sogno, come se il domani fosse un cielo stellato, luminoso e magico, che sorprende lo stupore dei bambini la sera prima di addormentarsi.
Ci si scopriva ogni giorno un pochino di più, come se la vita fosse una corolla di petali da contare, da sfiorare con delicatezza e riguardo. Quanta dolcezza nelle voci delle madri e quanta tenera fermezza in quella dei padri, quanta voglia di vivere con dignità la propria condizione, senza pesare e far pesare su nessuno le piccole preoccupazioni quotidiane. Era in questa grande corte dei miracoli che la figura di Gesù diventava il freno e la molla, l’attesa e la conferma, la certezza che la vita aveva un principio e una fine, qualcuno che la sapeva far amare prima e dopo e forse anche di più. Gesù era il modello a volte un po’ sfilacciato che occupava la nostra fantasia.
C’era chi gli voleva assomigliare, chi lo guardava con grande rispetto, chi lo temeva, chi lo tentava, con quel rossore che tingeva le gote ad ogni piè sospinto. Un Gesù mite, attento, presente, uomo tra gli uomini, amico di tutti, educatore di vita, fine suggeritore di parole e atti. Qualcuno s’innamorava di lui e lo seguiva, lasciando al mondo le sue perplessità. Naturalmente il peccato esisteva, ma era confinato, lo potevi osservare e leggere, avevi tutto il tempo, la volontà e l’amore di evitarlo e di combatterlo. Gesù è ancora lui ed è ancora accanto a noi, ma siamo troppo pieni di noi, alteri e superbi, ciechi e arroganti per riconoscerlo, per dargli la mano e lasciarci guidare. E forse Lui è amareggiato, ma conosce l’uomo e lo aspetta sempre, con quella pazienza e con quella tenerezza forse più materna che paterna che restituisce la fiducia in se stessi e in quel mondo che ogni giorno di più si allontana alla ricerca di divinità che non esistono e che lasciano vuoti profondi nella condizione umana.
È nella forza del suo amore che si legittima e si sublima la bellezza della vita, è nella croce che la vita stessa dell’uomo attinge la sua forza e la sua speranza, è nella certezza della fede che possiamo sempre trovare la via della riconciliazione, è nella Pasqua di Risurrezione che si compie il miracolo della salvezza. È in questa direzione che si muove la catechesi di papa Francesco, nel ricongiungere l’umanità alla sua realtà, a quel principio e a quella fine che rappresentano i cardini della vita cristiana.
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