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Donne

LUI E IO, PER SEMPRE

LUISA NEGRI - 25/03/2016

lialaDi antica e aristocratica famiglia discendente dagli Odescalchi, nata a Carate Lario, Amalia Liana Negretti Cambiasi (1897-1995), si trasferì a Varese negli anni Sessanta. Scrittrice prolifica e amata da milioni di lettori, firmò più di ottanta romanzi. Visse nel ricordo del suo grande amore, il marchese Vittorio Centurione Scotto, che morì nel 1926 inabissandosi con il suo idrovolante nel lago di Varese durante le prove della Coppa Schneider. Si immagina qui che sia la stessa a raccontare le vicende della sua vita.

 

Ho ancora un romanzo da scrivere. E sarà l’ultimo. L’ho già tutto in mente ma non so quando e come riuscirò a metterlo sulla carta. I miei occhi sono malati e la luce forte del giorno che entra dalla finestra dello studio mi infastidisce come se mi ferisse. Divento sempre più insofferente, ma non solo per la cattiva salute della vista: ho compiuto novant’anni, molti per creare ancora personaggi nati dalla mia fantasia.

Spesso la notte mi pare di avvertire un tonfo sordo, come di persiana che sbatte: pam, pam. Non ne parlo con nessuno, ma qui intorno so che non ci sono case con le persiane. Col passare delle ore il rumore cresce e diventa quasi incubo, e mi rimanda al ricordo di una persiana che sbatteva in una notte inquieta di molti anni fa, sul lago di Como.

Vorrei trattenere solo i ricordi più belli del mio lago, dove vivevo da bambina con i nonni, con la mamma e con la mia cara Annetta: la balia che mi crebbe e mi amò come una figlia. Vorrei ritornare al giardino dei nonni: ai due cipressi e alla vitalba che d’autunno diventava rossa e nel sole pareva un incendio, al nespolo che si specchiava nel lago, vicino all’enorme cespuglio di lavanda che inebriava l’aria del suo profumo. Vorrei quelle ore solitarie di luglio, quando prendevo il largo dalla darsena sulla piccola barca bianca che era, anche di nome, Mia. Per risentire la voce inquieta di mia madre: “Ghinghi, rispondi…dove sei?”.

A volte è il riflesso abbagliante di una scia di luna nel golfo di Moneglia a tormentarmi l’anima e gli occhi mentre cerco pace nel buio.

Le mie lettrici mi scrivono ancora lettere e biglietti bellissimi, mi confortano con il sostegno della loro vicinanza affettuosa. E’ stato sempre così, da quando ho cominciato a essere letta e seguita. E non c’è giorno che al cancello della villa non arrivi qualcuno in cerca di una fotografia e di un autografo. Alla “Cucciola”, è un continuo pellegrinaggio di devoti di Liala, come scrivono anche i giornali ad ogni compleanno. Pri Pri e Tilla accontentano tutte, fanno il possibile per esaudire le richieste e le piccole, discrete curiosità sul mio conto e sulle condizioni della mia salute. S’accollano ormai ogni incombenza dedicandomi quasi ogni attimo della loro vita. Mi accorgo che non è facile alimentare quella leggenda che si è creata attorno a Liala, ma loro ci credono e si impegnano forse più di me.

Ho iniziato a scrivere perché dovevo ormai provvedere alle mie bimbe e a me stessa e mi pareva che questa fosse l’unica cosa che avrei potuto e saputo fare. Quel giorno, troppi anni fa, m’ero messa davanti alla macchina per scrivere e un brivido m’era corso lungo la schiena. Ero sola, con il mio passato e con il mio presente. Stavo cercando di annullare la distanza tra me e il mondo, conquistando un posto ben preciso, che fosse solo mio, escludendone gli altri. Solo a questa condizione avrei potuto scrivere storie credibili per me e per le mie lettrici. Uscivo da un matrimonio insoddisfacente, ma soprattutto dovevo superare il dolore per la perdita fisica del mio più grande amore. Che non volevo dimenticare e, anzi, avrei continuato a raccontare a tutti quelli che avessero avuto voglia di stare a sentire la nostra bellissima e infelice storia. Signorsì fu un successo enorme, Arnoldo Mondadori capì di avere scoperto una nuova scrittrice non appena vide le prime pagine del manoscritto del romanzo. Se vuole lo continuo, gli avevo detto con una faccia tosta che non mi riconoscevo. Lui mi prese in parola: e, a cose fatte, lo pubblicò.

Il nome d’arte me lo trovò D’Annunzio. Ero ospite con Mondadori al Vittoriale, assieme al poeta viveva una Baccara dolcissima e un po’ intristita. “A Liala Cambiasi Negretti, compagna d’ali e di insolenze”, egli scrisse per me sotto una sua fotografia. Da quel giorno Amalia Liana fu Liala per sempre.

Nei miei romanzi è entrata tutta la mia vita. Ho lavorato di fantasia, ma le passioni e i sentimenti espressi erano dentro di me. E non sarebbero nate tante storie, se dietro non ci fosse stata la mia storia personale. Quella della bambina del farmacista di Carate Lario, morto troppo giovane, e di una maestra che si dedicava con tanto amore, ma con altrettanta severità, all’insegnamento. Certe asperità del mio carattere, certe durezze che mi scopro anche nei confronti delle persone che più mi amano, e le drastiche scelte di cui poi mi sono pentita, nascono da paure e insicurezze antiche, dai grandi dolori che segnarono prima la mia infanzia, poi il resto della vita. Il mio matrimonio con un ufficiale attraente, di un’importante famiglia milanese, mi deluse ben presto: non per l’inesperienza di mio marito nell’amministrare il patrimonio di famiglia, né perché aveva quasi il doppio dei miei anni, ma per la sua scarsa attenzione verso di me.

Trovai l’amore in un giovanissimo aviatore. Purtroppo quel cielo che lui amava tanto non seppe proteggerci. Il mio amore se andò inabissandosi con il suo idrovolante nel lago di Varese in una giornata d’autunno piena di sole. A Varese l’avevo incontrato per la prima volta, a Varese uscì dalla mia vita. Nello stesso giorno, alla stessa ora in cui lui moriva, la mia macchina finì fuori strada.

Rischiai anch’io la vita. A salvarmi fu il coraggio di un amico. Non seppi mai spiegarmi quella terribile coincidenza ma arrivai più volte a desiderare che l’amico non fosse stato presente.

Da allora non ho fatto altro che rimpiangere quell’amore. E l’unico modo per mantenerne vivo il ricordo era di riviverlo scrivendo altre storie belle e tristi come la nostra. Ho fatto della mia esistenza una lunga tela di parole. Quanto io abbia scritto non saprei dire, né quante parole io abbia messo in fila, una dietro l’altra, pensando a lui. Ma è certo che non potevo smettere, perché se mi fossi fermata sarebbe stato quasi come uccidere quel nostro amore. Se mi era stato negato l’unico uomo capace di volermi bene, non potevo fare altro che continuare a raccontarlo attraverso sempre nuove storie, dove i nomi dei protagonisti erano altri, ma l’amore era lo stesso che avevo conosciuto con lui. Un’amara e insieme dolce condanna, da scontarsi nella scrittura.

Anche ora che i miei occhi si sono quasi asciugati per quel tanto scrivere, perché la loro luce è scivolata di pagina in pagina nei miei libri, continuo a inventare storie dentro di me. E’ sempre dolce il ricordo mentre la vecchiaia porta antichi e nuovi rimpianti. Prego Pri Pri di mettersi alla macchina per scrivere, per fissare sulla carta i miei pensieri e sentimenti. Lei si stanca per me ogni giorno, da figlia obbediente. E’ il sostegno affettuoso e discreto della mia vita. E’ la mia ombra dolce, generosa e affidabile. Quando non bastano le giornate, perché le cure infinite della mia salute e del mio corpo la tengono sempre occupata, con la cara Tilla, lei lavora ancora per me la sera. Sappiamo tutt’e due che manca quell’ultimo romanzo. Dev’essere il racconto del definitivo incontro con il mio pilota. Immagino che io e lui c’incontreremo lassù e che quando ci rivedremo sarà come se gli anni non fossero mai passati. La sorte ha voluto che se ne andasse ancora bello e giovane e io rimanessi qui a vivere, per tanti e tanti anni ancora, come si dice nelle favole. Solo che la mia vita senza di lui non è stata una favola. I critici, che non mi hanno mai amata, mi hanno sbrigativamente etichettata come scrittrice rosa. Nulla di più falso. Non mi sento tale. Ho dispensato ore di gioia a milioni di lettori e, mi hanno detto, ho potuto regalare dieci minuti di serenità agli ammalati terminali. E se ho fatto cadere i miei personaggi tra le braccia della passione più forte l’ho fatto con garbo, con discrezione, congedandomi sulla porta della camera da letto. Per tutti questi motivi non posso essere chiamata “scrittrice rosa”. Non è l’immagine che io voglio lasciare di me, anche se alla fine la leggenda e la favola hanno prevalso. Forse la mia poca vita di società, gli snobismi dichiarati, i piccoli vezzi di donna e di scrittrice –il filo di perle al collo, gli abiti color pastello, i brindisi con lo champagne a ogni compleanno- hanno creato questa apparenza.

Io ho accettato, in nome dell’amore perduto ho fatto tutto questo. Glielo dirò quando ci vedremo, se saprà riconoscere il mio viso di vecchia e il mio sguardo, che ho consumato per lui. Nel mio prossimo e ultimo romanzo succede. Succede che siamo di nuovo insieme, che ad accogliermi nell’aldilà è proprio il mio amore, con indosso la sua divisa bianca. E io sono ancora giovane e bella per lui, come una volta.

 

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