Chiunque avesse avuto la ventura, sul finire degli anni Sessanta di calcare nella nostra città i marciapiedi della notizia, giovane cronista o collaudato giornalista che fosse, si sarebbe imbattuto in Franco Giannantoni, anzi nel “nostro inviato Franco Giannantoni”… Giovanni Franco, come in modo un po’ più burocratico e forse altisonante lo cita l’Ordine dei giornalisti di Milano che gli ha conferito la medaglia per i cinquant’anni di iscrizione e, dunque, per l’attività giornalistica svolta.
Non sbagliamo a dire che dei giornalisti formatisi a Varese – alla pari di Giovanni Bagaini, di Mario Gandini e di Mario Lodi – Franco Giannantoni appartenga alla leggenda. E non è un’affermazione buttata giù a caso, perché ci sono le raccolte dei giornali a testimoniarlo: La Prealpina, innanzitutto, dove aveva mosso i suoi primi passi, e il Giorno di Milano, dove approdò poi sotto la direzione di Italo Pietra, grande direttore e comandante partigiano.
Dal “nostro inviato”, dicevamo, perché Franco pur operando nel nostro territorio varesino e, più in generale, in Lombardia, aveva il proprio nome sempre legato alla famosa dicitura. Chi scrive, ai quei tempi giovanissimo cronista, vedeva in Franco Giannantoni il giornalista “arrivato”, quasi un mito. E Franco lo alimentava anche nell’aspetto, perché del giornalista aveva il cosiddetto physique du rôle: alto, sempre elegante, andatura dinoccolata, una fronte spaziosa – come si diceva una volta – che copriva con cappelli a larga tesa, la sigaretta tra le labbra e il taccuino nelle mani; e l’auto con la quale si muoveva, una Triumph Spitfire color verde bottiglia… Arrivavi sulla notizia, e c’era già la sua auto posteggiata spesso in modo maldestro, e lui era al lavoro.
Chi è della sua generazione – di una decina d’anni maggiore della mia più o meno – potrà dire meglio della sua bravura professionale. Il mio è il ricordo un po’ “sentimentale” di un ragazzo. Sembrava burbero, scontroso (certo, qualche volta si arrabbiava un po’…) ma non lo era affatto. Se noi giovani, inevitabilmente, eravamo obbligati a portargli rispetto, lui per carattere lo portava nei confronti di tutti noi: di me, di Max e soprattutto di Enzino Tresca. Quando – ci eravamo incontrati casualmente sotto i portici – gli dissi che La Prealpina mi aveva assunto come praticante giornalista, volle pagarmi da bere, lui a me. E mi disse con la sua erre famosa, roca e un po’ arrotata: “Bvavo, fai pvatica, ma non covveve tvoppo… e fa’ attenzione a questo mondo di squali, a queste puttane navigatvici”. Una volta che successe un fatto di cronaca importante a Gavirate e io ero appiedato, lui non so come lo venne a sapere; mi telefonò a casa e venne a prendermi con la sua auto…
Molti l’hanno spesso criticato, e anche evitato, per certe sue posizioni oltranziste. Ma non v’è nessuno che, magari vistosi in qualche modo “attaccato” nei suoi pezzi, rivolgendosi a lui per un chiarimento, non abbia trovato rispetto, comprensione, e qualche volta anche amicizia.
E non c’è a farne un importante personaggio varesino solo il lavoro di Franco Giannantoni giornalista. C’è lo storico Giannantoni che ha saputo indagare, scavare come nessun altro nel territorio di Varese – specie per quanto riguarda il periodo della Resistenza e della Repubblica di Salò – scrivendo libri, volumoni, che rimangono soprattutto come documenti, secondo l’antico detto “carta canta”. E non credo che Franco – spesso presentato come giornalista e storico, quasi che la seconda qualifica sia più importante della prima – si senta offeso se si afferma che i suoi libri di storia e di ricerca sono proprio quelli di un giornalista che sa lavorare con impegno e con sacrificio nella ricerca della verità Un giornalista vero. Un bravo, grande giornalista.
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