La vita religiosa – o, come si preferisce dire oggi, la vita consacrata – ha segnato da sempre il cammino della Chiesa. Plasmandola profondamente nei primi secoli col monachesimo. Obbligandola, nel Medioevo, a riformarsi e poi difendendola dall’offensiva del protestantesimo, condividendo la sua stessa sorte durante la rivoluzione francese, e quindi, pur tra non poche ambiguità, sostenendone l’azione missionaria. Nel Novecento impegnandosi nella promozione umana e nella realizzazione del Concilio. E contribuendo al progressivo spostamento del cattolicesimo verso il sud del mondo.
In questo modo, la storia della vita religiosa si è anche intrecciata strettamente con la storia dell’umanità. Basterebbe ricordare il contributo alla costruzione dell’Europa e della stessa democrazia, oppure notare l’opera dei religiosi nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nell’emancipazione femminile. E il martirio sotto i totalitarismi che hanno insanguinato il XX sec.
La vita religiosa risale agli inizi del cristianesimo. È vero che degli asceti, uomini e donne, per lo più esseni, c’erano già prima di Gesù. Ma, dopo di lui apparvero anche in ambito cristiano. E quell’ascetismo si fece itinerante e domestico fino a sfociare – nel III sec. d.C. – nel monachesimo.
Seguendo probabilmente l’esempio di Giovanni Battista, alcuni cristiani lasciarono la città e si rifugiarono nelle campagne, sulle montagne o nel deserto, per dedicarsi totalmente a una vita di preghiera e penitenza.
Qualcuno era scappato per paura delle persecuzioni che ancora infuriavano contro i seguaci della nuova religione. Proprio in quel periodo, sotto Decio, ce ne fu una attuata in maniera sistematica, e sanguinosissima. Ma in genere la motivazione più profonda di quella scelta del deserto fu la ricerca e la contemplazione di Dio, nel silenzio, in solitudine e a digiuno.
Erano i primi eremiti, i primi anacorèti. Vivevano all’aperto o in una grotta o addirittura su una colonna alta venti metri, come farà Simeone il Vecchio, detto lo Stilita. “Il deserto divenne una città” si legge nella vita di Antonio, scritta in maniera un po’ romanzata da Atanasio di Alessandria.
Antonio era il più famoso degli eremiti di allora. Ebbe 105 figli spirituali, ma non lasciò nessuna regola. I suoi precetti erano rivolti specialmente all’esigenza – per arrivare a conoscere Dio – di purificare l’anima e il corpo dalle malattie provocate dal peccato.
Intanto la religione era stata pienamente riconosciuta da Costantino. Ma l’impero romano era ormai avviato al tramonto. Alle frontiere premevano i barbari, mentre nelle città dominavano la corruzione, la violenza, il libertinaggio, e aumentavano ogni giorno i poveri.
Allora, quello che era nato come bisogno di conversione personale, si trasformò in una protesta contro la decadenza sociale e morale, contro i troppi legami della Chiesa con lo Stato. Alcuni eremiti diventarono guide, consiglieri spirituali per tanta gente impaurita dalle drammatiche incertezze di quella fine d’epoca… Così ci fu un primo ritorno dal deserto verso le città.
Giovanni Crisostomo pensò che era meglio andare ad Antiochia per proporre anzitutto ai giovani il monachesimo come “porto sicuro in mezzo alla tempesta”. Qualche anno prima Basilio di Cesarea aveva cercato di inquadrare la vita con i suoi discepoli. Ma fu Pacomio a fissare le prime regole per passare dall’eremo (individuale) al cenobio (vita comunitaria).
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