Viviamo un momento particolare, in cui riesce molto difficile appoggiare la nostra storia personale, trovare lo spazio in cui scommettere la nostra identità, il nostro presente e il nostro futuro, la nostra ricerca di comprensione, di appartenenza e di affermazione. Viviamo il confronto con una natura a tratti impietosa e turbolenta, capace di ingolosire e di sedurre, di incantare e di distruggere.
Si tratta di una condizione anomala, che lascia scoperti ampi spazi di affettività incolta, dove riesce sempre più difficile coltivare il seme della lealtà, della fedeltà e dell’onestà, ascoltare la voce del fanciullino che è in noi. Siamo passati dal centro alle periferie senza prima aver spiegato alle persone che le periferie non sono esili forzati o ghetti creati per isolare la disumanità di un genere tradito, ma semplicemente luoghi dove la vita si tende e matura offrendo al mondo un’idea di come sia possibile cambiare in meglio una condizione.
Anche il pensiero lavora in retrovia, in luoghi poco frequentati e si duole di essere lasciato spesso solo con le sue inquietudini, con la sua voglia di fare, d’inventare, di spaziare, di contemplare, aggredito da un materialismo che si presenta con la sua cadaverica immagine finanziaria. È spesso frustrato, avvilito, depresso. Gli impediscono di manifestare la bellezza di una scoperta che non sia sempre e solamente legata alla sfera tecnologica o a quella economica e per questo si è appollaiato per rimuovere le illusioni.
Viviamo sospesi tra varie forme di individualismo e l’aspirazione a vivere il conflitto sociale, dove si giocano i ruoli e i valori che caratterizzeranno la nostra vita presente e quella futura. Tra varie forme di individualismo ed esigenze societarie torniamo spesso a rispolverare momenti che abbiamo vissuto e che abbiamo visto sfiorire sotto l’incalzare di eventi imprevisti.
È difficile comprendere quanto sia impegnativo mantenere un equilibrio in una società che ha fatto di tutto per sviluppare forme illusorie di benessere e di stabilità sociale, verità che sono diventate “eccessive”. La verità non è mai stata così incerta, così preda di un costume che trascende sistematicamente per dimostrare che tutto è relativo, che in molti casi i valori sono palliativi per soddisfare la demagogia di turno.
Se ti sollevi e osservi per qualche istante il mondo dall’alto ti rendi conto in quale situazione viviamo: fumi, edifici sventrati, crollati sotto l’incalzare di guerre fratricide, uomini contro uomini, massacri, corruzioni, omicidi, suicidi, fallimenti, avvelenamenti ambientali, pregiudizi, odi, rancori, organizzazioni criminali, delinquenza comune e organizzata, non c’è più un angolo in cui si respiri il vento caldo della tenerezza e della serenità.
Eppure navighiamo in un mare di leggi, di regole, balzelli che ci dicono cosa dobbiamo e cosa non dobbiamo fare. Le leggi restano spesso confinate nell’individualismo legittimista di chi le interpreta, le usa, le volge e le stravolge. La bandiera della democrazia continua a sventolare, ma i riscontri oggettivi si contano sulla punta delle dita. Ognuno si è ritagliato il suo pezzo di legislazione, urla la sua verità. L’ansia sale d’intensità e tocca tutti, anche quel mondo che un tempo non aveva voce, immagine, vita e colore.
Un tempo non c’erano la televisione, i computer, gli smartphone e i telefonini che potevano sorprendere le mani della povertà umana intrufolate nei bidoni della spazzatura o dignitosamente tese con un cappello in mano a chiedere l’elemosina.
La povertà è rimasta e prolifica a dismisura. Non c’è più solo l’italiano del nord, quello del centro o quello del sud, incontri maree umane che sfidano la morte per un sorriso di speranza. Il mondo che abbiamo conosciuto e che non vuole abbandonarci esiste ormai solo nella memoria storica, quello di oggi e di domani sarà un’altra cosa. Non ci sorprendiamo più se l’abitante del deserto firma le nostre carte d’identità o cura le nostre malattie, l’integrazione ha preso il via molto tempo fa. Più il tempo passa e più ascoltiamo storie di mondi lontani, popolati da oceani, foreste equatoriali e deserti e ci rendiamo conto che la poesia e la prosa attecchiscono ovunque incontrino chi dà loro spazio e ascolto, che il sorriso e la felicità sono legati a qualcuno che li sa donare, chi sa dimostrare che l’uomo e la donna sono esseri umani ovunque si trovino e che il mondo che abbiamo addomesticato non è solo nostro o come abbiamo sempre pensato una conquista.
Forse le conquiste sono altre o di altro tipo, non riguardano più solo un muro a secco o una bandiera o rotoli di filo spinato, non si possono più misurare in metri quadri non in chilometri quadrati, le conquiste sono soprattutto conquiste di cultura e di umanità, di solidarietà e di collaborazione. Stiamo vivendo la primavera di un mondo nuovo e complicato, non facile da realizzare, ma pur sempre illuminato da un’alba e da un tramonto, dallo sguardo entusiasta di un padre e di una madre, dai sorrisi di speranza dei figli. Siamo alla vigilia di qualcosa che cambierà radicalmente i nostri modi di essere e di pensare, che ci farà riflettere su chi veramente siamo e su quale sarà il nostro destino.
È in primavera che si vedono spuntare le gemme, che ci riaffacciamo al mondo con uno spirito nuovo, più vivo, più attento, più conciliante. È in primavera che i colori si armonizzano e i sentimenti si rinnovano, cancellando gli effetti dei grigiori di un inverno freddo e piovoso. È in primavera che il povero respira di nuovo la speranza di una libertà meno avvilente, meno schiavista, meno ancorata all’idea di un pianeta proprietà personale. Il futuro è di una umanità che convive, condivide, che opera e si attiva e apre le porte a nuove identità.
Si tratta di un cambiamento forte, epocale, non previsto, ma inevitabile. L’uomo è chiamato a una predisposizione globale alla necessità, a nuove forme di rielaborazione e di condivisione. È in questa ottica di realismo politico che occorre posizionare l’attenzione, per evitare che un giorno qualcuno si svegli e dica: “Non l’avevamo previsto!”.
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