La primavera ormai s’impone, anche se qua e là, negli angoli più ombrosi, rimangono toppe di neve. Quest’anno a inaugurare la nuova stagione sarà la domenica delle palme.
Provo a rivisitare, adagio e lungo il filo della memoria, la domenica delle palme che dava inizio alla settimana santa e che vivevo da ragazzo. Nel Veneto della mia infanzia non si coltivava l’olivo. Il sabato precedente la domenica delle palme, arrivavano dal verduraio, con la verdura e i frutti, i rami d’ulivo. Le foglie erano ormai rinsecchite e fragili. Tra noi ragazzi si andava a gara per adornare quei rami con nastri colorati. I più fortunati appendevano anche una campanellina. Qualcuno, una colomba bianca ritagliata da un foglio di cartoncino. Durante la processione del giorno dopo avremmo agitato i rami d’ulivo, creando un festoso trionfo.
Nel descrivere l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, nessuno dei quattro evangelisti fa posto ai fanciulli. Invece, la liturgia latina, nei canti processionali e nelle preghiere, li mette davanti. I piccoli davano “decoro” e “voce” ai canti dell’accoglienza e lo spontaneo e confidenziale tripudio a Gesù rappresentava l’allegrezza a cui dovevano fare posto dopo pochi giorni la mestizia ed il dolore. Noi ragazzi cantavamo a squarciagola. Gli adulti, no: avevano una compostezza e un decoro da tutelare.
Oggi non è più così. Il secolarismo non può permettere nelle strade e nelle piazze questa manifestazione di giubilo: i biechi agnostici guarderebbero con indifferenza l’insignificante processione.
Anche la severa liturgia ambrosiana non canta alcun osanna al re che entra in Gerusalemme. Non è, il suo, il trionfo di un re vittorioso, alla testa di un popolo armato, potente sugli avversari e destinato a regnare con violenza. Quello di Gesù è un ingresso di una umiltà disarmante che pur manifesta la sua regalità divina nella povertà, nella semplicità e nella pace del Padre. È seduto su una puledra d’ asino presa in prestito, non su un cavallo bianco.
Il venerdì santo il sacrestano esponeva un grande crocifisso con gli strumenti della passione: non c’era appeso il corpo di Cristo. Quello l’avremmo contemplato nel “sepolcro”. No, c’erano solo i segni della passione. Io indugiavo davanti a essi e mi facevo elencare e spiegare da chi mi accompagnava il loro simbolo: i chiodi, la corona di spine, le catene, i flagelli, la spugna inzuppata d’aceto, la piccola scala a pioli, la tenaglia, la lancia, i dadi, il gallo.
Oggi, a distanza di più di mezzo secolo, capisco meglio l’espressivo valore di quei simboli: i chiodi, le catene, i flagelli, la tenaglia non rappresentano forse gli arnesi con cui si soffocano il desiderio di libertà e il rispetto della dignità di tanti esseri umani? E la spugna inzuppata di aceto non raffigura il miserevole, ultimo slancio di umanità che un Occidente sazio e grasso offre alle turbe innumerevoli di uomini sprovvisti di quel minimo indispensabile per non morire di fame? E i dadi non riproducono ancor oggi il gioco d’azzardo con cui i potenti della terra decidono l’avvenire di popoli interi? E la scala a pioli non ci ricorda quella che anime pietose sono costrette a salire per slegare i cadaveri torturati da raccapriccianti ideologie? E il gallo non è lì pronto a cantare per ricordare alla nostra coscienza il tradimento usato nei riguardi di migliaia di donne, bambini, uomini e anziani che affondano i piedi nel fango e dormono all’addiaccio? E la lancia non ci ricorda la bomba atomica contro cui ce la prendiamo invece di assalire il male che è dentro di noi, che ci oscura lo sguardo?
Come non poter pensare in questa settimana santa a tanti discepoli di Cristo che partecipano alla sua passione perché perseguitati nelle loro terre da fanatici, che uccidono in nome di Dio? Alle quattro suore missionarie della Carità che offrivano il loro amore agli anziani a Aden, uccise per un bruto odio, ai sacerdoti rapiti di cui non si conosce la sorte, ai 125 mila cristiani rifugiati in Kurdistan, ai cristiani raccolti in preghiera e incendiati vivi nelle loro chiese?
E come non riandare col pensiero ai tristi fatti di cronaca che ci inducono a pensare che l’umanità sia a un bivio drammatico della storia? Alle guerre, all’origine delle quali non c’è solo un apparato militare, dei confini da difendere, un’ideologia da conservare – che pur non consentono di riconoscere guerre giuste – ma solo il disprezzo per l’uomo? E come non riandare alle crisi economiche guidate da spregiudicati che mercanteggiano su tutto e di tutto fanno danaro? Come non poter amare e chinarci sui figli dell’Uomo che vivono i calvari della storia: i barboni che muoiono sulla strada nell’indifferenza dei passanti, i profughi che non hanno alcun partito che li difende, i senza casa, i disoccupati, i poveri cristi dimenticati nelle prigioni, nei reparti psichiatrici, nelle case di riposo, vittime talvolta di soprusi e di violenze, alle donne violentate, ai politici corrotti… Sembra che l’uomo sia scomparso, che non ci sia più spazio per lui. E dove l’uomo scompare, incomincia la notte dell’umanità e sopravanzerà la tristezza.
Gli uomini che Dio ama sono chiamati a farsi operatori di pace: i credenti per i quali l’alleluja di Pasqua non può essere solo un rito, per i non credenti senza audacia che hanno rinunciato a pensare con la propria testa e col proprio cuore e che pur hanno interesse per l’uomo. In tempi pigri nessuno può chiudersi nella piccola cerchia di affetti personali e non caricarsi delle sofferenze planetarie: dal nostro soffrire si schiuderà la speranza.
Dopo il venerdì santo viene la Pasqua e neanche il sordo frastuono delle rissa può impedirci di sentire il suono festoso delle campane, di contemplare con gli occhi i segni della rinascita attorno a noi, di avere un cuore pasquale.
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