Rompiscatole, come Giampaolo Pansa si definisce, e che dà il titolo al suo libro appena pubblicato da Rizzoli, è parola che almeno in questo caso non ha un vero significato negativo. Non è un sinonimo di “rompiballe” (l’Emmerdeur francese, da un vecchio film di Edouard Molinaro) o di “Strarompi”, come si chiamava un personaggio televisivo degli anni Sessanta inventato da Paolo Panelli.
Rompiscatole, nel senso che gli attribuisce Pansa, e secondo noi, qui sta per testimone. Di certo, un testimone scomodo, fastidioso e imbarazzante per il potere soprattutto politico. Un testimone di cui nell’ultimo mezzo secolo di storia italiana, e di giornalismo, non si sarebbe potuto fare a meno.
Della generazione di mezzo, cioè di coloro che erano troppo giovani alla fine della seconda guerra mondiale per combattere come partigiani o come repubblichini – il sottotitolo del libro è “L’Italia raccontata da un ragazzo del ’35” – e troppo vecchi per gli “anni formidabili” del Sessantotto, Giampaolo Pansa è senza dubbio uno dei giornalisti migliori, se non il migliore in assoluto. Con una carriera di indiscussa qualità interamente maturata sul campo che prende le mosse alla Stampa di Giulio De Benedetti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che continua poi al Giorno di Italo Pietra e al Corriere di Piero Ottone e che finisce, fino all’altro ieri, alla Repubblica di Scalfari e all’Espresso, dove ricopre la carica di vicedirettore. Un curriculum di cronista-editorialista-inviato importante, inframmezzato da una sessantina di libri scritti dagli inizi della carriera fino a oggi.
Anche quest’ultimo libro – Il rompiscatole – ferma il punto dopo una sequenza di altri saggi che hanno rotto il conformismo letterario e storico, specie riguardo il dopoguerra, la lotta partigiana e la storia della Repubblica di Salò, come accadde per Il revisionista, scritto sette anni fa. Ma non è detto che Pansa si ripeta, anche se inevitabilmente qualche passaggio si ripropone, perché ogni volta appare qualche particolare nuovo, qualche sottolineatura, qualche ricordo – anche di famiglia e d’ambiente – che impreziosiscono e rendono avvincente e il racconto.
Tutto, in realtà, comincia con un’opera, Il sangue dei vinti (2003), con la quale Pansa diede voce alle storie accadute nei mesi successivi alla guerra civile, ma anche prima, e al riconoscimento delle vittime – diciamo così – della parte avversa a quella dei vincitori. Si disse che erano cose rimasticate, già note, poco documentate. Ma perché, a parte qualche giornalista di parte spesso sbeffeggiato o ignorato, nessuno le aveva volute raccontare, in un certo senso, da “sinistra”? Ci provò, per primo il “rompiscatole” Pansa con un’eco di scandalo e di “vesti stracciate” che si ripercuote ancora oggi.
Che i racconti fossero poco documentati è la prima grossa bugìa intentata dai detrattori nei confronti di Giampaolo Pansa, il quale non solo ha potuto documentare le vicende descritte, ma anche ogni piccolo particolare di esse. Certamente, la storia non è un monolite, e ogni volta si può salire gradino per gradino verso la verità. Pansa, che ha cominciato la propria carriera di giornalista proprio grazie a una voluminosa tesi di laurea in scienze politiche sulla resistenza tra Genova e il Po (è nato a Casale Monferrato), conosce bene la materia e continua a provarci.
Un’altra accusa, forse ancora più risibile della prima, è che il giornalista avesse scritto per procacciarsi vantaggi nella carriera. Per esempio arrivare a dirigere il Corriere della Sera. Un’accusa inverosimile, e anche maliziosa, che è smentita negli stessi libri del giornalista e dalla sua carriera interamente vissuta “da testimone” e “da cronista”, un po’ anarcoide, forse, ma interamente votato al mestiere vissuto, alla professione sul campo e non al raggiungimento di un qualsivoglia bastone da maresciallo, tanto da caratterizzarsi – per sua stessa confessione – con un ruolo talvolta negativo nei confronti della famiglia. La moglie, il figlio.
Più conosciute – e Giampaolo Pansa ne parla anche in questo libro – le storie riferentesi alla famiglia di origine, di cui per altro il giornalista aveva già parlato in opere precedenti (il padre Ernesto, operaio sulle linee del telegrafo, la mamma Giovanna, modista – dopo essere stata al lavoro come “picinina” – con un piccolo negozio nel centro di Casale, la nonna paterna Caterina, il nonno Giovanni Eusebio, lo zio Paolo, muratore a New York, morto cadendo da un’impalcatura…) e anche storie relative all’educazione sentimentale – le ragazze, le donne – del giovane Pansa. Ma nulla o pochissimo – e lo preannuncia egli stesso – sulla famiglia vera. Una riservatezza che ci ha richiamato la vita di un personaggio di un altro libro di qualche anno fa – Eia eia alalà –, Edoardo Magni, dove forse Giampaolo Pansa, che grazie a lui aveva voluto raccontare la nascita e la caduta del fascismo, aveva un po’ identificato la sua di storia. Quella di un giornalista attento, di un testimone scrupoloso – e anche ironico – ma sempre con un piccolo e segreto spazio per sé.
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