Restauratore col sigaro sempre in bocca, editore, scrittore, giornalista dalla forte vena polemica e irruente protagonista della vita culturale varesina: l’associazione degli Amici del Sacro Monte presieduta da Ambrogina Zanzi intitolerà una lapide a Carlo Alberto Lotti sabato 9 aprile alle 14.45 nell’ex cimitero del borgo, ora Giardino della Memoria, poco sopra la stazione a monte della funicolare. Lotti, scomparso nel 2007 a settantaquattro anni in un incidente stradale, fu un appassionato studioso del Sacro Monte di Varese di cui conosceva tutti i segreti, si potrebbe dire ogni angolo, ogni ciottolo.
Partendo dalla visita pastorale di Carlo Borromeo nel 1578, verificò misura per misura la corrispondenza di dati e notizie d’archivio riguardanti il borgo di Santa Maria, il santuario, il monastero di clausura e il viale delle cappelle con una minuta analisi, censendo numeri e cose con paziente precisione. Tra il 1982 e il 1994, al fianco dell’arciprete monsignor Pasquale Macchi, già segretario a Roma di papa Montini, sovrintese ai lavori di restauro sugli affreschi e le sculture lungo la Via Sacra; e vinse la sua “battaglia”, a volte aspra, con la Soprintendenza riportando le statue ai colori originari del barocco lombardo, che erano stati coperti nell’otto e novecento.
Professionista umile e scrupoloso, non usava giri di parole per definire il suo lavoro di servizio al capezzale delle cappelle: “Siamo un’impresa di pulizia e dobbiamo solo pulire le statue”, diceva, ma non fu un lavoro facile. Fino agli anni venti del secolo scorso il restauro era consistito nel ridipingerle completamente, dando nuove pennellate sopra i colori stinti. Dai tempi di padre Aguggiari – all’inizio del Seicento – le statue avevano subito ben sette ricoperture e l’ultima volta erano state “ripassate” dal pittore bergamasco Girolamo Poloni, braccio destro di Lodovico Pogliaghi.
Con Lotti le cose cambiarono. D’accordo con don Pasquale ripulì i colori sovrapposti nel corso dei secoli per tornare, dove possibile, alla pittura originaria. Nel 1983, quando l’arciprete incaricò Renato Guttuso di realizzare la propria Fuga in Egitto al posto di quella seicentesca del Nuvolone, esplosero le polemiche e dovette intervenire un giudice per stabilire torti e ragioni. In realtà Guttuso non lavorò sulla pittura del Nuvolone ma su un nuovo pannello di cemento che prese il posto del rifacimento eseguito da Poloni nel 1923 e smantellato per l’occasione.
La Fuga in Egitto ridipinta sessant’anni prima per “rinfrescare” l’affresco originario del Nuvolone già gravemente sbiadito si era consumata non per la cattiva tecnica del Poloni, ma perché il colore non si vedeva più a causa dell’infelice posizione della parete su cui poggiava l’affresco. Il problema esiste anche per l’acrilico di Guttuso che rischia di “sparire” nonostante le assidue e costose cure. Carlo Alberto Lotti provò a convincere l’artista siciliano a cimentarsi con un affresco, ma egli preferì l’altra soluzione. In ogni caso non osteggiò il pittore o il soggetto dell’opera, criticò la scelta della tecnica da usare.
Di origine toscane, laico genuino e senza peli sulla lingua, partecipò alla vita culturale cittadina con passione. Negli anni Settanta aprì un laboratorio di restauro nel monastero delle Romite e firmò con lo pseudonimo pirandelliano “l’uomo dal fiore in bocca” acuminati interventi sul quotidiano Il Giornale, concorrente della Prealpina, nato per iniziativa degli editori Violini e Parravicini. Il direttore Ambrogio Lucioni gli aveva messo a disposizione una pagina settimanale che egli riempiva con opinioni seguitissime e controcorrente.
Riversò infine il suo sapere e l’amore per l’arte in numerose iniziative editoriali e in preziosi libri fra i quali l’accurato “Santa Maria del Monte sopra Varese – Il monte sacro Olona e il Sacro Monte del Rosario”, pubblicato da Silvana Editoriale per il giubileo del duemila, in cui descrisse la storia del borgo e del viale delle cappelle con studi inediti e interessanti approfondimenti storici. Sua è anche l’inchiesta a fascicoli “Madonna del Monte” che poi raccolse in un raro volume.
Oggi porta avanti il suo nome Piero, figlio d’arte, che ricorda: “Mio padre mi portò sulla Via Sacra quando aprì il cantiere alla terza cappella, io allora ero un ragazzino e sognavo di fare l’architetto. Poi incominciai a scendere nel laboratorio sotto il nostro appartamento in via Vela come garzone di bottega e la passione è cresciuta, ho continuato il mestiere che avevo respirato da bambino. È stato un maestro non tanto di ricette e metodi di lavoro ma di passione e d’entusiasmo. Il restauratore, diceva, è l’umanista che ricostruisce filologicamente la storia dell’oggetto d’arte”.
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