Invece d’illusioneggiare in promesse vaghe, di cantilenare refrain smorti, di scansare impegnativi e rivelatori confronti, i candidati del centrodestra alle comunali di Varese dovrebbero in via propedeutica rispondere a un modesto quesito: sono d’accordo o non lo sono, con quanto realizzato dalla giunta municipale nell’uscente legislatura? Ne condividono il core business politico? Cioè: le scelte d’ambito urbanistico, culturale, economico, sportivo; gl’interventi in tema di piccoli lavori pubblici, salvaguardia dell’ambiente, grandi infrastrutture strategiche; le prese di posizione su sanità/ospedali, servizi alla persona, mini e maxiassistenza sociale eccetera? Ovvero: intendono (1) proseguire nel solco della continuità con il passato prossimo o pensano (2) che sia arrivato il momento di cambiare strada per il futuro?
Ai gareggianti basterebbe dire, delle due, l’una: a) stiamo col potere che finora ha governato perché ne apprezziamo/stimiamo/elogiamo ogni decisione assunta; b) ci schieriamo sul versante del potere in essere, però obiettiamo ad alcune, molte, tantissime scelte e ci batteremo per un altro potere in divenire. Quale? Andrebbe (va) spiegato. Con un argomentare convincente e l’esercizio dell’onestà intellettuale. Per esempio: definirsi candidati estranei ai partiti tradizionali quando se ne plaude all’opera fin qui compiuta, suona un po’ singolare / grottesco / cerchiobottista. Sarebbe opportuno (doveroso) uscire in fretta dall’equivoco, per aprire nella muraglia conservativo-immobilistica della città la porta nuova della rinascita, dopo il mortifero retrocedere delle ultime stagioni amministrative (ultime, penultime, terz’ultime eccetera: il declino è di vecchia data, ingiallita, quasi antica).
Non è detto, naturalmente, che il peggio alberghi solo nei partiti e il meglio risieda solo fuori di essi. È però sicuro che i partiti al comando di Varese – Lega, Forza Italia, Udc, Ncd: variamente assemblati e dissociati nel corso del capriolesco quinquennio 2011/2016 – potevano far meglio, per quanto i movimenti popolari d’opposizione possano aver ecceduto (ma hanno davvero ecceduto, come affermano i loro critici?) nell’accusarli d’ogni peggio. Si chiama realismo, e non è né di destra né di sinistra. Cosa c’è di male a privilegiare il bene del realismo, esprimergli solidarietà, metterlo al centro della campagna elettorale?
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Il centrosinistra, quanto a realismo, ha offerto sciagurate prove nel passato. Scegliendo il candidato sindaco all’ultimo istante, non sostenendolo tramite l’indispensabile fervore / determinazione / entusiasmo, fidando poco o nulla nell’alleanza col movimentismo civico, più subìta che cercata. In breve: giudicava perduta Varese, e l’impressione era che ritenesse inutile dannarsi per non vincere. Ciononostante, cinque anni fa andò al ballottaggio, e Luisa Oprandi resse da par suo l’impari sfida con Attilio Fontana. Seguirono recriminazioni. Il sale fu: ah, se ci avessimo messo più pepe. Appunto.
Stavolta il centrosinistra valuta la congiuntura propizia per tentare, finalmente, il ribaltamento dopo ventitré anni di predominio avversario. Ma perché questo avvenga, e il governo di Varese cambi, a cambiare dev’essere chi aspira alla successione del borgomastro padano. Cambiare la tattica d’approccio alla partita, cambiare il modo d’intendersi con i disponibili partner, cambiare i contenuti dell’agenda amministrativa, se capitasse di doverla aprire e tenere nel caso di conquista di Palazzo Estense.
Aver effettuato le primarie è stato un primo, importante passo. Ammettere da parte del Pd che se non fosse stato incalzato da Varese 2.0 ben difficilmente si sarebbero svolte, è il secondo. Il terzo consiste nel costituire un asse d’eguaglianza tra chi alle primarie s’è imposto e chi, pur perdendo, intende continuare la corsa a sostegno del vincitore. Davide Galimberti sin dall’indomani della sua personale vittoria ha promesso la reunion con i battuti, ciò che dovrebbe (deve) accadere in termini di forma e di sostanza. Tipo: scegliere d’intesa i componenti delle liste apparentate, quella del Pd e quelle civiche. Così da non creare rivalità speciose, concorrenzialità deleterie, fraintendimenti forieri d’equivoci se non di guai. Si chiama, anche questo, realismo. Cioè saggezza. Senza farvi ricorso, immaginare di sconfiggere i competitors del centrodestra resta un’amabile follia.
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