“Vai in Uzbekistan? E dov’è?” “Sai: Samarcanda … la via della seta …” “Ah, sì!”. O forse no, forse non ha ancora collocato il Paese in una sconosciuta zona dell’Asia centrale. Del resto nemmeno io, prima di decidere il viaggio, mi ero preoccupata di dove fosse. Però Samarcanda! Samarcanda è un miraggio, un luogo della fantasia. Dice Terzani:“Samarcanda: un nome che sembra cantare […] Si può anche non sapere che è una città, non sapere dov’è, non conoscere la sua storia, non legarla a quella di Tamerlano, ma il suo semplice suono, Samarcanda, è una promessa”. (“Buonanotte signor Lenin”, Longanesi). Una promessa non mantenuta.
“Fiumi poi campi poi l’alba era viola / bianche le torri che infine toccò” canta Vecchioni nella canzone-fiaba, metafora della vita, intitolata – e non poteva essere altrimenti – Samarcanda. Ma non ci sono bianche torri ad accoglierci. Mi aspettavo di vederla sorgere su un’altura, città murata e misteriosa, da scoprire con cautela, quasi per non disturbarla. Invece non facevo i conti con chi già l’aveva violata, buon ultimo il regime sovietico, artefice dei grandi viali aperti alla retorica delle parate e al passaggio dei carri armati. Restano, qua e là, alcuni splendidi monumenti del passato, ma il fascino antico è stato distrutto con la città.
Piazza Registan, ad esempio, è delimitata da tre splendide madrase edificate tra il XV e il XVII secolo e restaurate di recente, ma non è più, come vuole il suo nome, “il posto della sabbia”: un tempo, ricoperta di sabbia rossa, era un mercato colorato e vivace; ora è lastricata e chiusa sul quarto lato da transenne di ferro. Per giunta, ci arriviamo in un giorno di pioggia e la freddezza del luogo si raddoppia nel riflesso sulle lastre di pietra.
Poi però un po’ di calore e di allegria ce lo trasmettono alcuni Uzbeki che si avvicinano incuriositi e, quando scoprono che siamo Italiani, ci rivolgono le sole parole che conoscano: “Toto Cutugno” e “Celentano”. Mi fanno tenerezza, a volte, queste persone che, mentre il nostro pullman percorre un’autostrada quasi deserta, si fermano a guardarci, ci sorridono e ci salutano agitando la mano; mi risvegliano immagini di cinquanta o sessant’anni fa, quando, in un’Italia ancora in via di sviluppo, i vecchi del nostro Sud portavano le sedie ai margini della ferrovia e si sedevano aspettando di veder passare il treno. Riescono a comunicarmi la sensazione di un Paese che vive e che, nonostante lo sfruttamento cui è stato sottoposto con la monocoltura del cotone e il prosciugamento del Lago d’Aral, guarda con fiducia al futuro.
Mi riconcilio in parte con la città visitando ciò che resta del grande osservatorio astronomico di Ulugbek – illuminato sovrano del XV secolo -, il Mausoleo di Tamerlano, con la sua enorme cupola azzurra e l’interno risplendente di oro e smalti, e la grande Moschea di Bibi Khanim. Ma più mi affascina l’imponente necropoli di Shahi-Zinda, un complesso di mausolei edificati tra l’XI e il XV secolo, le cui raffinate decorazioni vengono esaltate dal pallido sole di febbraio. Eppure, anche questi splendidi monumenti sembrano fantasmi di un passato che non si vuole riconoscere come anima del presente: solo turisti percorrono la via che separa le tombe delle donne da quelle degli uomini, turisti e un custode in abito tipico e colbacco, con ramazza e secchio.
Mi affaccio ad una balaustra da cui si domina la città: una distesa di case basse e anonime, su cui emergono, qua e là, alcuni edifici antichi, che sembrano visitatori spaesati, capitati lì per caso. Domani partiamo per Bukhara e poi per Khiva. Chissà che non siano diverse. Ma intanto penso a quel che resta di Samarcanda e mi rendo conto che è solo un nome che canta.
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