«Chi vuol vivere in un deserto pieno di gente e bene attrezzato, venga a Varese. Non se ne pentirà.» Con questa immagine, una importante firma del giornalismo italiano fissò il carattere della società varesina in un’inchiesta giornalistica di cinquant’anni fa. Il miracolo economico aveva profondamente trasformato la cittadina lombarda, che, da luogo di villeggiatura, era diventato uno dei centri propulsori della nuova economia nazionale. In dieci anni, dal 1951 al 1962, il reddito pro capite in tutto il territorio provinciale era raddoppiato. L’industria e il commercio erano stati i protagonisti dell’espansione economica di quegli anni, mentre all’agricoltura e al turismo furono riservate, come sempre, buone intenzioni, accurate analisi e molta retorica.
«Varese ha sentito il richiamo dell’industria, ci si è buttata a capofitto, e ha voluto una sua city irta di grattacieli.» Il famoso giornalista che si aggirava per Varese nel febbraio del 1966 non poteva non notare le trasformazioni urbanistiche, che avevano segnato il piccolo centro cittadino. Sintomi, questi, di quella «febbre del cemento» descritta da Calvino e che avrebbe lasciato ferite profonde. A Varese come in molte parti d’Italia.
Ma all’inviato speciale del grande giornale non era ignota la storia economica di questo estremo lembo della terra lombarda. Ricordò, infatti, che l’industrializzazione del Varesotto era «di vecchia data». Un secolo prima, gli industriali del settore tessile erano stati attratti da queste zone essenzialmente da due motivi: «la ricchezza d’acqua, specie lungo l’Olona, e quella di una manodopera contadina facile da convertire in operaia per le delusioni che le dava una terra collinosa e avara».
Accanto alla vecchia industria, nel corso del Novecento si era sviluppata una industria nuova, esplosa poi con il boom. E così, i «vecchi turbanti» come Cattaneo, Trolli e Mazzucchelli osservavano ora la cavalcata trionfale dei «giovani turchi» come Borghi e Rusconi. Non erano solo due mondi economici, due visioni imprenditoriali a confrontarsi. Erano mentalità differenti che si traducevano in differenti stili di vita: «I vecchi turbanti sono gente guardinga e zampa di velluto, che predilige l’ombra e tira più a occultare la propria potenza e ricchezza che a ostentarla. Vive defilata e dimessa, sfugge la pubblicità, detesta il chiasso e i riflettori, e anche quando fa della filantropia, la fa in sordina per paura del fisco. I Borghi e i Rusconi hanno il panache, l’orgoglio dei propri galloni spinto fino alla tracotanza. Non si contentano del successo. Vogliono che lo si veda e lo si ammiri. Anche il loro mecenatismo si confonde con la pubblicità».
L’estensore di queste righe conosceva bene Borghi. Gli aveva dedicato un bel ritratto, sempre sullo stesso quotidiano, alla fine del 1964. In quella circostanza, aveva ricordato la celebre battuta che Mister Ignis avrebbe rivolto al proprietario di un giornale parigino, che non lo aveva trattato con il dovuto riguardo: «Se la costa, sta baracca? La compri mi!»
Al di là dello sfolgorante luccichio di una ricchezza custodita o ostentata, di vecchia o recente data, Varese sembrava non offrire molto altro al nostro inviato speciale. «Povera di cronaca», la definì, e senza grandi sussulti politici. La guida della città era saldamente in mano ai cattolici, che sceglievano i loro alleati «secondo il drizzone del momento, ma senza mai abbandonare il cadreghino».
Acutamente, la grande firma osservò come nel Varesotto convivessero due anime: «quella del Sacro Monte, simbolo della Fede e centro del culto mariano, e quella del forno crematorio, emblema della massoneria». «Ma il clero – chiosava – è molto più forte della Loggia».
Ugualmente «languida» gli apparve la vita culturale. Certo, a Varese vivevano personalità come Guttuso, Chiara, Piovene, Corra. «Ma nessuno si occupa di loro, nessuno li riconosce quando vengono in centro per comprare il giornale o fare una sosta al caffè». In fin dei conti, i varesini lavoravano nello stabilimento o si riposavano nelle ville isolate. I luoghi di socializzazione, chiusi e riservati anch’essi, erano al massimo i Rotary o i Lions.
«Ci dev’essere qualcosa, nell’aria del Varesotto, che invita alla privacy.» Per questa ragione, Indro Montanelli concludeva il suo bel reportage con quella immagine che oggi, forse, sembra un po’ impietosa: «Chi vuol vivere in un deserto pieno di gente e bene attrezzato, venga a Varese. Non se ne pentirà».
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