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Spettacoli

OSCAR CON SORPRESA

MANIGLIO BOTTI - 04/03/2016

spotlightC’è sorpresa e sorpresa nell’assegnazione degli Oscar 2016. E stiamo solo a tre dei premi: al miglior autore di una colonna sonora (che era per noi italiani l’Oscar più atteso, in quando vedeva in lizza il nostro Ennio Morricone per la musica del magnifico film di Quentin Tarantino “The Hateful Eight”, nemmeno entrato nella selezione), al miglior attore protagonista – su tutti svettava la candidatura di Leonardo Di Caprio per “Revenant-Redivivo” – e infine l’Oscar per il miglior film.

Morricone e Di Caprio hanno vinto. Ecco le due “non sorprese” della serata al Dolby Theatre di Los Angeles. Il nostro maestro, 87 anni, aveva già ottenuto un Oscar alla carriera, nove anni fa, e cinque nomination nel passato ma – per queste nomination da competitore – finora non era mai salito sul palco a ritirare la prestigiosa statuetta. Che dire di Morricone: è una nostra gloria nazionale, della musica da cinema e della musica in genere. Il suo nome non è legato solo ai film di Sergio Leone, dalla famosa “saga del dollaro”, della metà degli anni Sessanta, a “Giù la testa” e a “C’era una volta il West” e a “C’era una volta in America”, ma alla musica del miglior cinema internazionale del mezzo secolo trascorso.

L’elenco sarebbe lunghissimo. Su tutti ci piace ricordare la colonna sonora di “Mission” (1986) di Roland Joffé, film forse non eccezionale (ma fu premiato a Cannes con la Palma d’Oro e ottenne l’Oscar per la miglior fotografia), reso famoso proprio dalle note scritte dal maestro Morricone. E poi Leonardo Di Caprio, il miglior attore protagonista, un veterano nonostante i suoi quarantun anni e con già una trentina di film nel curriculum – molti dei quali grandi successi (“Titanic” – 1997 – di James Cameron) – e con un poker di quattro nomination alle spalle. Ma nemmeno lui era mai riuscito a stringere tra le mani la statuetta come miglior attore protagonista. Era atteso alla quinta nomination e ce l’ha fatta, meritatamente, per il suo passato, per la gioia delle ex-ragazzine degli anni Novanta e forse anche per l’ultimo film per cui è stato candidato…

Ma la sorpresa – se proprio così possiamo dire – è venuta dall’Oscar per il miglior film, andato a “Spotlight” (da noi “Il caso Spotlight), di Thomas McCarthy. Il film narra dell’inchiesta che, nel 2001, il Boston Globe avviò scoprendo lo scandalo di un settantina di predi pedofili della chiesa locale. Nel 2002 il “Globe”, per questo lavoro che aveva visto in azione un team di quattro giornalisti, denominato appunto “Spotlight”, ottenne anche il Premio Pulitzer.

Il film è interessante, e importante, per un duplice motivo: il modo e l’impegno di condurre un’inchiesta nel giornalismo americano (l’ostinazione, la ricerca – non facile – delle prove e dei documenti pubblici su cui confrontarsi) e – secondo motivo – l’aspetto morale del tema, il mettere la chiesa bostoniana (e non solo) con le spalle al muro perché coinvolta in uno degli scandali più torbidi della sua storia.

L’inchiesta dei quattro di “Spotlight” del Boston Globe, nel modo e nelle procedure, fa venire in mente un altro film entrato nella storia della cinematografia: “Tutti gli uomini del Presidente – All the President’s Men”, di Alan J. Pakula, del 1976, magistralmente interpretato da Dustin Hoffman e da Robert Redford e probabilmente migliore di “Spotlight” per l’impatto e la costruzione; il film che narra le vicende dell’inchiesta condotta dai giornalisti del “Washington Post” Bob Woodward e Carl Bernstein, i quali scoperchiarono lo scandalo del Watergate, che portò infine alla dimissioni il presidente repubblicano Richard Nixon.

Anche “Il caso Spotlight” fa riflettere sulla forza del giornalismo americano. Sul potere della stampa che, rispetto ad altri Paesi, non è coinvolta con il potere politico o economico o religioso; o lo è molto di meno. Senza dubbio.

Lo scandalo dei preti pedofili, e delle coperture loro rivolte, ha aperto una grossa ferita nella chiesa che papa Francesco, senza remore e cedimenti, ha cercato di risanare. È una ferita grave che ricorda un altro scossone dato alla chiesa cattolica, stavolta da parte di un’opera teatrale, più di cinquant’anni fa, quando il drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth portò sulle scene il suo lavoro “Il vicario” con il quale, di fatto, si apriva un processo contro la chiesa cattolica e contro papa Pio XII in qualche maniera colpevoli di essere stati a conoscenza, e di avere taciuto, dell’olocausto nei confronti del popolo ebreo messo in atto dal nazismo durante la seconda guerra mondiale. Allora la chiesa si difese. Si giustificò. Negò, e anche con prove accettabili. Anche se – oggi e nel passato – il rapporto con il popolo dello stato di Israele ne fu per lungo tempo compromesso.

Sia consentito, nel caso di “Spotlight”, dove in alcuni passi, dinanzi a comportamenti di cui ci si dovrebbe solo vergognare, anzi di più, viene messa in discussione anche la fede in Cristo, quanto meno di restare un poco perplessi e a disagio. Perché le parole di Gesù, per chi ha letto anche solo superficialmente e rapidamente il Vangelo, non sono mai state equivoche e anche più gravi e pesanti di qualsiasi legge: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare”. Uomini in genere e della chiesa, anche. E tra questi ci furono i traditori, che si uccisero per il rimorso, e coloro che invece rinnegarono ma piansero amaramente e si pentirono. Su questi ultimi Gesù, padre di misericordia, ha voluto fondare la propria chiesa.

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