L’Istat ha di recente pubblicato i dati di una sua indagine sulla “pratica religiosa” in Italia rilevandola dalla frequenza dei fedeli ai luoghi di culto. Per non essere fraintesi, diciamo subito che la “pratica religiosa” è categoria sociologica che riguarda la religiosità, ma non esprime la fede di un popolo o di una nazione.
Ritenendo pur valida ai fini di un’indagine sociologica il tipo di domanda rivolta agli intervistati, il quadro che ne risulta è quello di un’Italia che si sta sempre più secolarizzando.
Ricordo che già nei primi anni ’60 del secolo scorso, Sabino Acquaviva tenne un corso all’università di Padova sull’ “eclissi del sacro”, che il Concilio Vaticano II chiuse definitivamente l’“era costantiniana” determinando una situazione nuova per la Chiesa: il rapporto dialettico col mondo moderno scomparve per cedere il posto a una “simbiosi con la società temporale” (l’espressione è del teologo Congar), che padre Ernesto Balducci vedeva nell’evento conciliare e nei primi passi conciliari una “rottura tra la chiesa della cristianità e la chiesa nell’età secolare”. Da qui si incominciò a parlare di “scristianizzazione”, di “relativismo ideologico”, di “desacralizzazione”.
Secondo i dati dell’Istat, gli italiani che frequentano luoghi di culto almeno una volta la settimana sono il 29% (nel 2006 erano il 33,4%); questo dato scende nell’ “età di mezzo” del 30% rispetto ai dati del 2006; i bambini sono i frequentatori più assidui, anche se la loro presenza è calata del 57% rispetto al 2006; gli adolescenti tra i 14 e i 17 anni “frequentanti” sono calati del 17, 6% e quelli che non frequentano sono aumentati del 57%, i 18enni e i 19enni “frequentanti” si attestano al 15%, mentre gli anziani si dimostrano i più disillusi: i “frequentanti” sono calati del 30%.
Questi gli aridi numeri. Vorremmo tentare ora un’analisi.
All’interno della società dalla-vita-liquida di Z. Bauman, cioè della società “post” (postindustriale, postideologica, postmoderna, postcristiana…), si deve tener conto della complessità del tempo che stiamo vivendo. In una società secolarizzata, la religione appare realtà “deprezzata” (la fede religiosa appare come qualcosa da cui si può prescindere); in una società pluralista, la religione appare come una “scelta” fra le tante (il monopolio religioso non è più detenuto dalla chiesa cattolica); dinanzi alle crisi delle istituzioni religiose, la “religione ufficiale” appare poco credibile (i crimini, gli scandali, i peccati di omissione hanno creato un clima di disgusto nelle coscienze di tanti praticanti); nel contesto della cultura postmoderna, la religione appare come un’esperienza “effimera” (si iniziano i nuovi nati alla vita cristiana, poi si vedrà…; molte parrocchie appaiono agli occhi di alcuni come una sorta di agenzia religiosa, il cui personale, i preti, talvolta manca di un’identità stabile); nel contesto di una separazione tra fede-vita-cultura, la religione appare “insignificante” (ci si avvicina alla pratica religiosa non con animo convinto, ma per tradizione, facendo così aumentare un devozionalismo privo del buon sapore evangelico); nella società mediatica, la religione appare come realtà fluida, virtuale, spettacolo (soprattutto i giovani vivono i momenti forti della loro religiosità nei raduni oceanici o si fanno “salutisti” durante i pellegrinaggi o “mistici” in ambienti autoreferenziali).
Recentemente padre Marko Rupnik, l’ormai celebre teologo-artista, parlando in occasione del giubileo della curia romana e dei dipendenti vaticani, alla presenza di papa Francesco, ha messo in guardia i cattolici dalla tentazione degli effetti di una fede “vista come un insieme di pratiche, dottrine, precetti, comandamenti ed esercizi che l’uomo deve compiere per attirare su di sé la benevolenza di Dio e conquistare un premio”. Così facendo, “intere realtà della Chiesa si sono inaridite, decadendo nel semplice impegno di pratiche religiose” con il risultato d’istituzionalizzare le fede mentre il compito della Chiesa è di “far vedere al mondo cosa Dio fa di noi quando scorre attraverso l’umanità”.
Profondamente mutato il criterio di appartenenza “sociologica” al corpo ecclesiale attraverso la registrazione della nascita e del battesimo, l’usuale prospettiva bipolare – credenti e non credenti – porta in sé un certo tasso di ambivalenza e di ambiguità: è la fede, non la pratica religiosa, che esercita la sua funzione di umanizzare le coscienze in cui l’uomo contemporaneo deve scavare per trovare il senso da dare alla sua vita, così come la religione deve imboccare la strada profetica – l’annuncio della buona novella del Vangelo – e non solo quella della via etica, che può ridurre e impoverire la forza messianica della fede.
A noi sembra che dalla defunta “desacralizzazione” ora si debba passare all’”umanizzazione”, cioè ad una fede più vicina anche a coloro che si credono non credenti eppur cercano, talvolta con angoscia, di dare un senso alla loro “umanitudine”.
Nella società d’oggi non è il Vangelo che è cambiato, siamo noi – popolo di Dio: papa, vescovi, preti e laici – che incominciamo a comprenderlo meglio” (Papa Giovanni, 1962).
È vero: il cristianesimo è divenuto minoranza, com’è destino del sale, ma non è confinato nelle sacrestie. In questo periodo ci sono donne e uomini che testimoniano la loro fede nelle arene pubbliche delle opinioni e per essi la società diviene “segno dei tempi” in cui operare “non adagiandosi sulla comoda sicurezza, ma spendendo la loro vita per suscitare passi nuovi”: così il monaco-poeta Giovanni Vannucci.
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