Figlia di un diplomatico elvetico amico dell’eroe polacco Tadeusz Kosciusko, da questi ricevette in dono il cuore, che collocò in un cippo nella villa di Casbeno. Il prezioso lascito fu poi restituito dalla famiglia alla Polonia. Emilio, nato dal matrimonio della Zeltner con Giovanni Battista Morosini, appena diciannovenne morì eroicamente in difesa della Repubblica romana. Si immagina qui che sia la stessa a raccontare le vicende della sua vita.
Vivo le sere estive, qui a Vezia, con grande malinconia. Poco fa il sole è sceso dietro la collina. L’ombra della sera s’ė allungata sul prato, ha spento all’improvviso le voci del giorno e i sorrisi.
É l’ora di rientrare in casa, ma mi è dolce indugiare un poco. La luce chiara di giugno e i giochi dei nipoti nel giardino mi hanno riportata al ricordo di anni lontani. Mi ritornano le grida dei miei bambini, le chiacchiere con le amiche, la macchia degli abiti bianchi sulle sedie di vimini all’ombra dei pini. E mi pare di rivivere la pace di un luogo: il parco della villa di Varese, a me molto caro nei primi anni in cui lo abitammo. La gioia più grande sono stati i miei figli: le cinque ragazze e il caro Emilio. I momenti più belli con loro li ho vissuti proprio nella casa di Varese. In quel giardino c’era anche un pezzo del mio cuore. Voglio dire che c’era il cuore di un amico carissimo, un amico di mio padre e mio, che ho amato come un secondo padre. Era Tadeusz Kosciuszko, l’eroe polacco.
Il suo cuore, che lui aveva donato alla mia famiglia al momento della morte, era stato da me posto in un’urna in cima a un cippo. Avevo fatto incidere nella pietra, a perenne memoria: cor Thaddaei Kosciuszko. I miei figli sapevano dell’urna, perché spesso mi vedevano sostare lì accanto, in silenzio e in preghiera. A mia volta li scoprivo mentre correvano attorno al cippo, quasi avvinti da quella presenza. Mi pareva che i loro giochi fossero protetti dal cuore di Tadeusz, ma che anche loro volessero portare gioia a un amico che continuava a reclamare la nostra compagnia.
Ē stato Tadeusz, non mio marito, l’amore grande della mia vita.
Un giorno gli storici investigheranno le nostre vite, faranno i conti delle nostre età per capire se Tadeusz poteva essere innamorato di me, e io di lui. Si chiederanno perché mai un uomo lascia il cuore a una donna, perché mai le affida le sue preziose carte, le lettere con lo Zar, i cimeli che gli sono cari, le dona ogni prova dei suoi sentimenti patriottici.
Si domanderanno perché fossi proprio io a suonare per lui l’inno polacco al pianoforte, come mi aveva chiesto, mentre agonizzava. Insinueranno che in lui c’era verso di me una sorta di infatuazione senile, quella di un uomo che scopre la figlia del suo migliore amico fiorire di bellezza nell’età in cui diventa donna, e vorrebbe riportare indietro il proprio tempo, per poterne cogliere tutto lo splendore e la purezza. Se potessi parlare a questi indagatori di vite altrui direi loro di non turbarsi, di non accalorarsi per una data o per un particolare. Li pregherei di non cercare tra noi indizi peccaminosi. Io dico che c’era semplicemente amore. Come di padre e di innamorato, di fratello e di amico. C’era l’amore vero, che è tante cose insieme, e che un animo nobile e cristallino può cogliere con tutta l’attenzione, come si deve raccogliere un fiore delicato, per non sciuparlo.
Certo è che Tadeusz sapeva amare: ha amato in me l’amicizia di mio padre, la protezione e l’accoglienza che gli abbiamo riservato, il calore del nostro affetto e della nostra casa di Vezia. Ho sempre avvertito in lui questa grande capacità di amore e, e ho cercato di farla mia per trasmetterla a chi mi stava attorno. Non è stato così con mio marito. Morosini mi ha spesso ingannata, me ne sono accorta nel tempo. Ne ho avuto la prova dai tristissimi fatti che mi hanno costretto ad abbandonare per la vergogna la nostra bella casa di Varese. Ma lo sentivo già prima: dai suoi occhi, dallo sguardo che evitava il mio mentre mi parlava. Dalle sue mani, dal suo amore avido ma frettoloso.
Mio marito ha ingannato il nostro amore. Ma ha soprattutto ingannato i nostri ideali, miei e della mia famiglia. Ha sporcato i sentimenti di una vita nei quali ero stata cresciuta ed educata. Tadeusz e mio padre avevano patito l’esilio, i disagi dei trasferimenti di residenza, per coerenza e fede politica. Mio marito si era invece venduto ai nemici austriaci e ai suoi prezzolati informatori, offrendo loro -per cercare di ottenerne un titolo nobiliare che non gli spettava- un’odiosa collaborazione.
Me ne sono accorta troppo tardi, quando ne abbiamo pagate le conseguenze finendo sulle bocche di tutti: simulando un furto, mi aveva sottratto persino le preziose lettere di Tadeusz, raccomandandosi che non ne venissi a conoscenza. Mai avrei pensato che un giorno nella mia casa e nella mia vita sarebbe entrata la vergogna. Mi sentii tradita e macchiata proprio dalla persona che più mi doveva amare e sostenere. Solo la coscienza della mia innocenza e della mia estraneità alle sue manovre mi permise di sostenere il peso della vita. Poi, nel 1849, è arrivata la tragedia di Emilio, morto da eroe nella difesa della Repubblica romana. E questa volta la ferita ė stata ancora più profonda. Non ho accettato subito quella morte che mi ha sottratto la sua giovane età, la sua delicata bellezza, la nobiltà di un animo non comune. Emilio era buono e tollerante, ubbidiente e compassionevole, conosceva la pietà verso i meno fortunati. Ho provato un senso di ribellione che neppure la devozione per i sentimenti ispiratimi da mio padre e Tadeusz riuscivano a placare. Mi sono accusata di essere stata io stessa colpevole dell’ardore istillatogli, colpevole persino davanti agli occhi di mio marito che certo non la pensava come me. Poi ho capito che forse era giusto così, che c’era un disegno più grande, che tanta bellezza e purezza non potevano non essere colte al massimo del loro fulgore, e che forse era giusto, con lo stesso sangue dei Morosini, lavare colpe che a me erano parse incancellabili. Emilio ha lavato con la purezza del suo cuore di ragazzo l’onta patita dalla famiglia. Con il suo esempio ha ridato forza e dignità alle nostre vite: a diciannove anni ha conosciuto l’ammirazione di chi l’ha avvicinato, la gloria e la nobiltà vera che nascevano dal coraggio e dalla fede. Come se in Emilio fossero continuati l’ardore, il coraggio, la stessa fede di Tadeusz. Potevamo dunque chiedere perdono a Dio perché lui si era immolato. Ancora oggi non saprei dire quanto la morte di Emilio sia servita d’esempio a suo padre, non sono convinta che il dolore abbia persuaso mio marito a cercare nella vita cose più importanti dei falsi blasoni e riconoscimenti, delle superficiali gratificazioni ch’è andato inseguendo sempre. Devo sinceramente ammettere dentro di me di non averlo più amato dopo i ripetuti tradimenti dei miei sentimenti. Sono rimasta ancora con lui per i nostri figli, me lo sono imposta per non turbare la loro felicità. E intanto provavo verso la sua umanità triste e incompiuta una profonda pietà, invocavo Dio che volesse perdonarlo e cercavo in me, anche per lui, quella luce che non sapeva vedere. Non mi è stato facile vivergli vicino, ignorare quella sua superficialità e l’acrimonia che non gli concedeva pace e gli impediva di assaporare la bellezza e il valore di quanto ci era dato, la felicità delle cose piccole e umili di ogni giorno.
Né la sua presenza mi è stata di conforto nel momento del mio più grande dolore.
Il vero conforto l’ ho avuto da altri. Dalle mie figlie, dalle lettere e dal sostegno dei tanti amici, soprattutto del suo caro amico Dandolo, dai precettori e dai maestri, e persino dal chirurgo che vegliò Emilio sul letto di morte. Costui mi scrisse che non avrebbe mai dimenticato quella bella e graziosa testa di diciotto anni, così bianca e più pura delle statue di marmo del più grande maestro. Aggiunse che, nel dargli il suo ultimo bacio da quel letto di sofferenza, Emilio lo aveva chiamato fratello.
Fu Emilio Dandolo a raccogliere il corpo di mio figlio, dell’amico Manara e del fratello Enrico, ad aiutarci nella difficile impresa di ricomporlo e riportarlo a Vezia in quel difficile viaggio: da Ponte Sisto a Genova -dove al Dandolo fu impedito di sbarcare- fino ad Arona e Magadino. Il nostro caro amico Emilio dovette toccare, prima di giungere qui, Marsiglia e Ginevra.
Fu per tutti noi uno strazio indimenticabile: la mia povera Annetta si vide arrivare le spoglie del fratello, del fidanzato Enrico e dell’amico Luciano.
É vissuta, da allora, nel loro ricordo.
Nel tempo nuove vicende hanno mosso le nostre esistenze. Mio marito è mancato da oltre un anno, le figlie si sono tutte ammogliate, tranne Annetta. Non ho più doveri da assolvere e attendo con tranquillità di abbandonare questa vita. Sarà vivo il rimpianto in chi mi è vicino, ma aspetto la quiete che desidero.
Il cuore di Tadeusz è ancora con me, qui a Vezia.
Quando lascerò questa terra tornerà alla sua Polonia.
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