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Opinioni

AL TERMINE DELLA CIVILTÀ

EDOARDO ZIN - 26/02/2016

abramo

Abramo “pater multarum gentium”

Si guarda con preoccupazione e pessimismo a questo momento storico. Talvolta si è presi dal timore di trovarsi al termine della civiltà. Questo mondo è malato e l’uomo d’oggi non è più uomo. L’uomo è angosciato dalla paura. Paura della guerra e soprattutto di coloro che non sanno percepire il senso di questa tragedia. Paura del diverso che non ha più il volto dell’ospite, ma del nemico. Paura dell’avvenire dei propri figli e nipoti che nel futuro non vedono più una promessa, una speranza, un sogno, ma una minaccia. Paura dell’economia che inventa sistemi sempre più eleganti per arricchire chi ha già molto, togliendo a chi ha poco o niente. Paura della politica che non ostenta più la propria potenza chiudendosi nei palazzi o blindandosi in auto a prova di missili, ma seducendo con il sorriso, stringendo mani, facendosi circondare da manipoli di insipienti e di superficiali. Perfino paura della scuola che, anziché elargire sapienza e trasmettere la memoria viva di una cultura, elabora progetti, come se i figli dovessero essere preparati secondo schemi prestabiliti e non avessero un animo da alimentare con la verità.

Si ha paura di ammalarsi perché si teme la cura da parte di ospedali i cui dirigenti sono divenuti tali non per merito e capacità ma perché nominati da parte di clan corrotti. Si ha paura della violenza che si è così banalizzata al punto di ammazzare per gelosia o perché la personalità del narciso si scinde per diventare altro e poter anch’egli amare, amandosi fino ad uccidere, diventando così ancora più triste e incapace di attesa, malinconico, disperato. Si ha paura di tutto ciò che può dominarci.

Nella loro noia mortale alcuni sociologi vanno alla ricerca di una spiegazione che scomoderebbe nelle tombe Adorno e l’industria culturale, Benjamin e l’odio divenuto una dimensione detestabile per scoprire negli altri quello che non vogliamo scoprire in noi stessi; Mac Luhan e la società complessa e frenetica d’oggi che non lascia spazio alla responsabilità; Jung e la società senza padri; qualcuno la giusta emancipazione della donna che ha portato all’omologazione tra i due sessi e alla scomparsa della forza virile e della tenerezza femminile; Nietzsche e il suo Dio morto che ha lasciato lo spazio all’agnosticismo e allo scetticismo…

Preferisco aprire il Libro e leggere la Parola che non mi può defraudare, ma riportarmi alla ricerca, anche penosa, delle paure e alle ansie. Leggo: “Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno… Il padre nostro è Abramo… Se foste figli di Abramo fareste le opere di Abramo…”: così il Vangelo di domenica prossima.

 Ecco balzarmi avanti Abramo: nostro padre nella fede, padre di coloro che ricercano Dio, uomo fragile eppur forte nella fede fino al punto di ubbidire a Dio e di concedergli in sacrificio il figlio Isacco, nomade, pastore e pellegrino in terra, romantico che conta le stelle del cielo.

Mi è padre. Non tutti possono fare l’esperienza di padri “nella carne”, ma non c’è essere umano la cui “carne” non sia quello di figlio o figlia, per cui chiunque cerchi la propria origine la deve trovare al di fuori di se stesso. Mi è padre non solo in senso genealogico (“Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe…), ma anche in senso esemplare perché mi ha trasmesso la tradizione che non soggiace alla fede e l’oscura. In ciò è autentico, essenziale, autorevole. Che la società d’oggi manchi di padri perché non hanno più nulla da dire ai figli? Che la loro paternità si sia trasformata in vuoto paternalismo? Che sia perché i padri coabitano con i figli concedendo loro totale libertà senza donare loro amore, che solo segna il confine tra bene e male nella forma del divieto o del comando? Non contribuiscono forse tanti padri a tagliare le radici con il passato senza trasmettere ai figli un patrimonio di cultura, di memoria anche familiare, di valori testimoniati con la vita e non solo proclamati a parole?

Mi è padre nella fede. Non solo della mia, ma pure di quella della comunità ebraica e della comunità islamica e di tutti coloro che lo cercano, pensosi. Abramo ascolta Dio, che gli parla e tace, entrando così negli eventi, nella storia. Gli ubbidisce, segue i suoi comandi fino a costruire un’ara su cui offrirgli il figlio Isacco. Ha fiducia in Dio. Si fida della sua parola. Ripone le sue speranze in lui, ma Dio non vuole sacrifici umani e premia la fede di Abramo facendolo divenire il capostipite di un popolo da cui nascerà il suo figlio. La salvezza di Abramo e la nostra è legata alla fede che è abbandono. Quello di Abramo è un popolo, non una popolazione: un popolo coeso, unito nel bene e nel male. Abramo sa che uccidere il proprio figlio non fa parte dell’etica imposta dalla sua religione, ma la sua fede lo fa superare anche questa condizione. Abramo è responsabile, responsabile del suo popolo: in un momento in cui ci si accapiglia perché i problemi etici sembrano fondati sulla fede non sarebbe auspicabile affrontarli in nome dell’essere umano?

È pellegrino Abramo. Esce da una città misteriosa e incognita per andare verso la terra che Dio gli indica. Ed è ospitale quando accoglie i tre misteriosi pellegrini davanti alla sua tenda. Chiede incessantemente loro – dietro cui si nasconde Dio – che Sodoma si salvi. Perché non vedere in questa città, che si è macchiata del peccato dell’inospitalità, il dramma delle nostre città? Che cosa fare per esse per renderle meno invisibili, meno conflittuali, meno inospitali a Dio e agli stranieri? Perché non creare in esse anche spazi che permettano il silenzio, il dialogo e costruire strade percorribili in tutti i sensi?

È molto umano Abramo. Ha anch’egli paura : in Egitto e a Gerar quando tace la vera identità della moglie e la presenta come sorella; teme la carestia, di morire, si sente piccolo, incapace di portare a termine la sua missione. Ma a queste diffidenze Abramo non cede: non solo lui si affida a Dio, ma è ricambiato dalla fiducia di Dio, capace di trasformare le sue paure in occasioni di bene. Le paure, le vicende, le solitudini di Abramo sono anche le nostre.

Ed è romantico Abramo quando guarda in cielo e conta tutte le stelle, ma non è rammollito, sentimentale. È in contemplazione del creato. Avremmo bisogno anche noi di trovare il tempo per sognare e percorrere il sentiero che porta oltre le stelle, facendo così nostre le parole di Willian Blake: “ Colui che vede l’infinito in ogni singola cosa, vede Dio. Colui che non vede che la loro presenza esteriore per la ragione, non vede che se stesso”.

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