Il conflitto tra un padre e un figlio spesso purtroppo va oltre l’amore. A volte si manifesta con drammatica evidenza, altre no, resta nascosto: appare e riappare per poi scomparire per sempre, quando a sua volta il figlio diventa padre. E tutto, allora, si fa più chiaro e comprensibile nel ricordo.
Ne è prova un libro uscito di recente, “Mio padre era fascista”, pubblicato da Mondadori e scritto da Pierluigi Battista, già vicedirettore del Corriere della Sera e oggi editorialista e inviato dello stesso giornale. Non è – e il titolo già dice molto – un libro che tratta soltanto dell’inevitabile confronto-scontro tra generazioni (Pierluigi Battista è nato nel 1955), perché tocca nel particolare tanti “ragazzi” cresciuti dopo la fine della seconda guerra mondiale, e adesso a loro volta padri se non già nonni; è un libro confessione. Un libro che spiega o che vorrebbe spiegare.
Pierluigi Battista, nel momento in cui si aprì lo spartiacque del Sessantotto aveva solo tredici anni, ma presto il suo dissenso (specie nei confronti del padre) fu alimentato da una militanza naturalmente tutta caratterizzata “a sinistra”.
Il padre Vittorio, avvocato, era un reduce della Repubblica di Salò, nel cui esercito s’era arruolato molto giovane. Combatté, fu sconfitto e scampò alla giustizia sommaria dei vincitori della guerra civile dopo un sofferto un periodo di prigionia nel campo di Coltano, vicino a Pisa. Per lungo tempo, quasi fino alla morte, avvenuta sul finire del Novecento, si contrapporrà al figlio ma senza riuscire a trasmettergli – a fargli capire – nulla o poco delle proprie scelte. In un’Italia mai pacificata e in perenne lotta contro sé stessa.
Il libro, come detto, si snoda attraverso una confessione che è, che è stata, comune a molti della generazione di chi scrive. Identico, spesso, il confronto con i genitori, con il padre soprattutto. Identiche le polemiche, le domande imbarazzanti e le risposte incerte e inevase.
Il libro di Battista va ben oltre gli “insegnamenti” respinti, e qualche volta irrisi, del papà, che amava che il figliolo ammirasse, per esempio, i fasti dell’architettura fascista con i riferimenti ai molti “camerati di successo” che, come lui, avevano combattuto ed erano stati protagonisti di quella guerra infausta sotto tutti i punti di vista, da Mario Sironi a Ezra Pound, anch’egli prigioniero nel campo di Coltano, agli attori Vianello, Tognazzi, Albertazzi, al vituperato Dario Fo, prima repubblichino e poi passato al nemico…
Il libro contiene, sin dall’inizio, alcuni passaggi che aiutano a capire quale fosse l’“idea fascista” del padre. A Roma Vittorio Battista abitava vicino al comunista Ugo Pecchioli, partigiano combattente, e incontrandolo lo salutava sempre con rispetto, ricambiato… “E ci teneva a dirmelo – scrive Pierluigi –: “È un nemico; in quegli anni, se avesse potuto, mi avrebbe passato per le armi, e io stesso con lui, ma è un uomo che ha saputo combattere e rischiare per le sue idee”. Il disprezzo del “padre fascista” – continua Pierluigi Battista – era rivolto verso “gli italiani banderuole, quelli che come vigliacchi, appena giunto il momento per capire con esattezza e senza timore di sbagliare chi sarebbe sul trono a comandare, lo avevano umiliato nei giorni della sconfitta”.
In questo senso di un malinteso senso del dovere, da parte del padre, e nel suo disprezzo degli ignavi e dei vili si intravede già il recupero di stima – perché l’affetto mai era venuto meno, benché sopito – più tardi, dopo l’ “abbandono”, da parte del figlio, della casa borghese bene ordinata nelle sue cose di buon gusto. E infine nella sconvolgente lettura degli atti – il papà Vittorio era uno dei legali delle vittime – dei “fascisti” uccisi nel cosiddetto “rogo di Primavalle”. Un delitto, soltanto un delitto che non poteva essere nascosto dalle bugie e sotto il paravento di falsi ideali. Perché l’ideale che magari talvolta porta anche a contraddizioni e a commettere errori è quello della lealtà e, infine, dev’essere del rispetto della vita.
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