Avevo sempre pensato che “La vita è bella” di Benigni fosse un film “surreale”. Basato certo sulla realtà, anzi, sulla realtà più spaventosa che la storia umana abbia mai annoverato, ovvero l’esperienza di un bambino internato in un campo di sterminio nazista. Però, questo tema, trattato con la levità che solo un mezzo artistico come il cinema può consentire: il lager trasformato in un grande e insolito “parco giochi”.
Invece mi sbagliavo. E a dirmelo sono state Tati e Andra Bucci, le due sopravvissute ad Auschhwitz-Birkenau che hanno riempito di silenziosa commozione l’aula magna dell’Insubria durante la Giornata della memoria organizzata dall’Università, dal Centro internazionale insubrico nell’ambito del Progetto dei giovani pensatori con il patrocinio dell’associazione Figli della shoah. A fare da cornice musicale all’incontro, l’entusiasmo e la grazia degli allievi del liceo musicale Manzoni di Varese, diretti da Marcella Morellini. Direttamente al cuore dei moltissimi presenti sono giunte le note, tra gli altri brani, dell’inno israeliano o, per l’appunto, della Vita è bella di Benigni.
Come pure direttamente al cuore, trafiggendolo, sono arrivate le parole di Tati ed Andra, che, bambine di sei e quattro anni, alla fine del marzo 1944 furono arrestate a Fiume, insieme a mamma Mira, nonna Rosa, alcuni zii e al cuginetto Sergio De Simone, anche lui di sei anni. ”I nostri ricordi non sono propriamente cronologici – raccontano le due donne, dai cui volti e movenze si sprigiona una sorprendente aura di positività -, ma sono ricordi netti ed importanti. Il nostro primo ricordo è di quella notte, quando venne ad arrestarci un commando formato da nazisti, fascisti e dal delatore che, per soldi, aveva denunciato la nostra famiglia. Ricordiamo la nonna che si buttò in ginocchio davanti al capo spedizione pregandolo di risparmiare almeno noi bambini”. La nonna non fu ascoltata.
Dopo un viaggio lungo e faticoso in carro bestiame, “durante il quale già ci tolsero la nostra dignità di persone, facendoci fare i bisogni fisiologici in un unico secchio posto all’estremità del vagone”. La famiglia Bucci, il 4 aprile, varcò il famigerato cancello di Auschwitz-Birkenau e i tre bambini furono destinati alla baracca 11, quella in cui il dottor Morte, Joseph Mengele, faceva riunire i bambini che intendeva destinare ai suoi esperimenti. Tati e Andra furono scelte probabilmente perché scambiate per gemelle, mentre Sergio sicuramente per la sua bellezza. La bellezza, infatti, come terribile contrappunto di morte, era uno dei criteri con cui sovente veniva effettuata la disumana cernita.
“Non abbiamo pianto, non ricordiamo di avere mai pianto a Birkenau. Eravamo abituate a vedere morti, ce n’erano dappertutto. Tanto è vero che giocavamo per tutto il campo, anche intorno a un enorme cumulo di cadaveri, con assoluta naturalezza. La morte era una cosa naturale. A Birkenau la vita conviveva con la morte in assoluta indifferenza. Anche quando portarono via la mamma, noi credemmo che era morta, ma non provammo dolore. Era morta, era una cosa naturale lì dentro. La vita continuava e noi continuavamo a giocare in mezzo ai cadaveri”.
È, questa, un’altra testimonianza del più brutale annientamento effettuato nei campi di sterminio nazisti: non tanto o comunque non solo l’annientamento dei corpi, della vita fisica, ma il tentativo di annientare ciò che di più prezioso possiede l’uomo in quanto uomo. L’annientamento della sua dignità di uomo, della sua specificità. L’annientamento della fiamma stessa dell’Umanità.
In questa logica di distruzione dell’Umanità si inseriscono dolorosamente le modalità della fine destinata al cuginetto Sergio e ad altri diciannove bambini compagni di baracca di Tati ed Andra. Mengele aveva inviato al campo di Neuengamme venti bambini, dieci maschi e dieci femmine, al “collega” Kurt Heissmeyer che ne aveva fatto richiesta per le sue ricerche sulla tubercolosi.
Per sceglierli, Mengele fece uscire tutti i bambini dalla baracca 11 e disse loro: ”Chi vuole vedere la mamma, faccia un passo avanti…”. La voce delle sopravvissute si incrina nel momento in cui raccontano di Sergio che si allontana sorridendo e salutando, con la luce negli occhi al pensiero di stringersi di lì a poco al petto della mamma. E invece Sergio, insieme agli altri diciannove bambini, tutti di nazionalità diverse, diventarono delle cavie, sottoposte a terribili esperimenti e sofferenze fino al 20 aprile del ’45, quando, essendo ormai il liberatore alle porte, furono appesi a ganci da macellaio nel sotterraneo di una scuola di Amburgo, la Bullenhuser Damm.
La memoria di questi bimbi è stata salvata solo grazie all’impegno e alle ricerche del giornalista tedesco Gunter Schwarberg, al quale s’è rivolta Maria Pia Bernicchia, la ricercatrice italiana che ha pubblicato il libro “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”, Proedi edizioni. È una ricostruzione documentata della storia di questi venti bambini trasformati in cavie umane e uccisi come carne da macello. Ma è soprattutto un profondo atto d’amore nei loro confronti: il tentativo di restituirne il nome e la vicenda alla Storia.
Perché l’Uomo non dimentichi. Perché la Storia non rinneghi e non ripeta una brutalità così grande proprio contro l’essenza stessa dell’Umanità. Perché si possa per sempre sentire il profumo delle rose bianche coltivate nel giardino della Bullenhuser Damm a ricordo infinito delle lievi anime di Sergio e dei suoi compagni.
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