Di certe testimonianze e di certi libri si dovrebbe parlare di più, perché più di altri meriterebbero di essere pubblicizzati e letti. Pensiamo, per esempio, alla recente autobiografia (ma in realtà non lo è, o almeno non è soltanto un’autobiografia) del magistrato Gian Carlo Caselli “Nient’altro che la verità – La mia vita per la giustizia fra misteri, calunnie e impunità”, edita da Piemme e uscita nella librerie qualche mese fa. Non è un vera e propria autobiografia, e nemmeno un libro di memorie con tratti di autoelogio, perché apre ampi squarci di luce su uno dei periodi più tormentati della nostra storia ultima e recente, dagli anni della lotta al terrorismo, a quelli contro la mafia, a quelli vissuti alla direzione del sistema carcerario e, infine, alla procura di Torino per occuparsi anche di una delle vicende tra le più controverse: la battaglia anti-Tav.
La parola di Gian Carlo Caselli, 76 anni, torinese, un vero “servitore dello Stato”, secondo una dizione che un tempo sarebbe parsa un insulto, entrato in magistratura nel 1967, non può essere presa con beneficio d’inventario o con sufficienza. Perché lui, tutti quegli anni tormentati, li ha vissuti in prima linea, anzi sempre sotto scorta, penalizzando – da un punto di vista umano – la sua famiglia e sé stesso. E quindi da un osservatorio che definire “privilegiato”, più che coinvolgente e atto a determinare il carattere di una vita intera, sarebbe oltremodo banale. E stupisce che una testimonianza come quella del dottor Caselli, che fa luce sulla storia, passi quasi inascoltata, a differenza di altre (e di altri libri) ben più effimere, per non dire inutili.
I misteri, le calunnie, le impunità… Fermiamo il racconto di Gian Carlo Caselli su tre momenti importanti per il nostro Paese. La lotta al terrorismo, la lotta contro la mafia, le inchieste anti-Tav. Il terrorismo. Nei pentimenti di Patrizio Peci e di Roberto Sandalo, Caselli individua le due “slavine” che travolsero e portarono all’annientamento delle Brigate rosse e di Prima linea. Fu Caselli, insieme con altri colleghi, a raccoglierne le parti documentali e a trasmetterle al generale Dalla Chiesa. Ma la cosa che sorprende – a detta di Caselli – non è tanto quest’aspetto investigativo che avrebbe dovuto vedere muoversi all’unisono gli apparati dello Stato, bensì alcuni interventi magari non dettati da un secondo fine, ma da un volere accaparrarsi meriti e vantaggi che, infine, andarono ad alimentare le ombre degli immancabili “segreti”.
Alla procura generale di Palermo, il 15 gennaio 1993, dopo gli “omicidi eccellenti” di Falcone e Borsellino, Caselli fu accolto con la notizia dell’arresto di Totò Riina, il numero uno dei numeri uno della mafia. Anche quest’arresto, come spesso avviene nel nostro paese, fu “macchiato” da circostanze misteriose. Ma il problema vero, per Caselli, fu la condotta nel processo, già istruito per altro, contro l’ex sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti per associazione con cosa nostra. Merita riportare, in parte, le parole di Gian Carlo Caselli: “Il processo di primo grado, il 23 ottobre 1999, si conclude con l’assoluzione. Quattro anni dopo, il 2 maggio 2003, in Corte d’Appello i giudici modificano parzialmente la sentenza: nel senso che fino al 1980 fu provata la responsabilità di Andreotti per avere commesso il delitto, per gli anni successivi fu confermata la sentenza di primo grado. Il reato commesso fino al 1980 fu dichiarato prescritto… La sentenza di Corte d’Appello fu confermata dalla cassazione il 15 ottobre 2004. La verità giudiziaria, secondo la quale sono provati i rapporti di Andreotti con la mafia fino al 1980, è quindi definitiva”.
Più in generale, sulla lotta dello Stato contro la mafia Gian Carlo Caselli ha dettato quest’illuminante paragone: “La mia passione per il calcio – Ndr, Caselli è tifosissimo del Torino – mi ha portato, a riguardo della “partita” tra lo Stato e la mafia, a ricorrere più volte a una metafora pallonara. Provate a immaginare a una squadra di calcio che lotta per tutto il tempo e ha l’opportunità di battere un rigore al novantesimo. Ultimo minuto. Vittoria possibile vicinissima. Ma i giocatori, anziché calciare il rigore per segnare il gol della vittoria, che cosa fanno? Se ne tornano negli spogliatoi, perché qualcuno non vuole che si batta il rigore…”.
Una nota conclusiva sulle polemiche giudiziarie per le conseguenze della battaglia no-Tav, gestite da Gian Carlo Caselli, al termine della carriera, in qualità titolare della procura generale della Corte d’Appello di Torino. Una questione antica che mescola eventi reali e particolari, quanto meno censurabili, con problemi di carattere più generale e politico. Non certo un bene per la verità e per una vita serena del nostro Paese. Un vecchio giornalista, dando lezione ai suoi cronisti, diceva: “Separare i fatti dalle opinioni…”.
“Le inchieste – ha scritto il magistrato Caselli con altrettanta evidente chiarezza – hanno riguardato esclusivamente fatti specifici di violenza, a volte particolarmente gravi, addebitati a singoli soggetti. Il movimento e le idee sono ovviamente estranei alla categoria del penalmente rilevante… Il movimento No Tav può avere tutte le ragioni di questo mondo quando contesta l’opportunità, l’utilità, i costi, l’impatto ambientale dell’opera…”. Ma non su queste ragioni spetta decidere a un procuratore della Repubblica.
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